Napoli, il 17enne ucciso come un boss aveva rubato in negozio protetto dalla camorra. Folla ai funerali

Apr 30th, 2009 | Di cc | Categoria: Cronaca di Napoli

di Davide Gambardella

«Ciro, figlio mio bello! Ciro, che t’hanno fatto!». Sono grida che gelano il sangue. Che rompono il silenzio in una chiesa gremita da parenti, amici e conoscenti di un ragazzo ucciso a soli 17 anni come un boss della camorra. Il dolore della madre di Ciro Fontanarosa, il giovane di piazzetta Volturno crivellato dalle pallottole il 25 aprile scorso a pochi metri dalla stazione centrale, è lo stesso che si rinnova da anni nelle chiese del centro storico cittadino. Suo figlio è l’ennesima vittima di una violenza senza un perché, forse dettata da uno sgarro imperdonabile al boss del quartiere, quella violenza più volte condannata ma alla quale non è mai stata posta la parola fine. Lo lascia intendere il parroco durante l’omelia, padre Vincenzo Galano, il quale invita il Signore ad accogliere un suo figlio nella misericordia, ricordando che «solo Lui è l’unica salvezza per queste anime». «Che la morte di Ciro non sia vana – prosegue il parroco – ma ci aiuti a trovare una nuova via di speranza e di fratellanza».
Nella piccola chiesa di Tutti i Santi, una cappella piazzata al centro di quel lungo budello che è via Sant’Antonio Abate, zona sotto l’influenza del clan Contini, rimbomba il pianto. La salma di Ciro viene trasportata a spalle davanti alla chiesa intorno alle tre del pomeriggio, mentre per la strada del mercato centinaia di persone sono già in attesa in religioso silenzio da ore. È l’ultimo saluto ad un figlio del quartiere. Un saluto che i suoi parenti non volevano che venisse dato in forma privata, come avviene quando uccidono un camorrista. La bara bianca varca l’entrata della chiesa fiancheggiata da candidi fiori, facendo esplodere la gente presente in un lungo applauso. «Ciro era un ragazzo come noi – dicono con un filo di voce i suoi amici – non era un delinquente, la sua unica colpa è stata quella di nascere in questa zona». È come se lo volessero giustificare, per difendere il ricordo della sua persona che dopo quell’agguato mortale è stato messo in discussione. «Non dovete scrivere niente – minaccia un ragazzino con gli occhi gonfiati dalle lacrime – non avete rispetto nemmeno per i morti, dovete andare via!». È uno sfogo dettato dalla rabbia, ma isolato. La gente infatti con compostezza e dolore ha salutato per l’ultima volta “Ciruzzo”, «un altro angelo volato in cielo», come c’è scritto su uno striscione che i suoi amici hanno affisso di fronte all’entrata della chiesa.
In mattinata però si divulga una notizia che risulta determinante per dare una spiegazione all’assassinio del giovane: Ciro, ragionano gli inquirenti, è stato ammazzato perché aveva rubato in un negozio protetto dal clan della zona. Un affronto imperdonabile, che non poteva essere perdonato. Il 17enne già mesi fa fu pestato da alcuni personaggi orbitanti alla cosca che comanda nella zona dell’Arenaccia: «Ora devi riconsegnare la merce, soldi e refurtiva - gli avevano detto i picchiatori del clan -. Torna al negozio con la roba in mano, guai a te se ci riprovi». Ma Ciro non avrebbe obbedito. Non portò la refurtiva ai “signori del quartiere”. Ed il suo nome finì nella lista nera della camorra.
Ciro Fontanarosa sin da piccolo giocava con i suoi amichetti in piazza Volturno, come i tanti “scugnizzi” che crescono per le strade di Napoli. Un’infanzia difficile, condizionata dalla morte del padre, ucciso anch’egli a colpi di pistola. In molti lo ricordano come un ragazzo fin troppo vivace, cresciuto con i falsi miti che vengono imposti dalla subcultura partenopea. I piccoli furti, le rapine, i piedi pestati a persone che contano negli ambienti della malavita lo avrebbero infine condannato ad una morte che generalmente si riserva ad un camorrista. «Ciro, che t’hanno combinato, Ciro!» grida la madre del 17enne. Un grido di dolore e rabbia a cui Napoli sembra essere tristemente abituata.

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