Cambiare l’Università, perché sì
Dic 8th, 2010 | Di cc | Categoria: Scuola e Giovani
Da Economy, a firma Gianpiero Cantoni
“Che senso ha mettere altro denaro in questa università?” La riforma dell’università voluta da Mariastella Gelmini ha ricevuto, da parte dell’ala sinistra e fanatica degli studenti, una risposta preconcetta e odiosa, di stampo clamorosamente conservatore. Una protesta in fondo ignorante, esito intellettuale e isterico della cura di molti professori-baroni. Sono solo alcune frange del movimento studentesco, bisogna dirlo e ripeterlo, mentre la più parte degli studenti continua, in silenzio e con convinzione, a fare il proprio dovere. Però l’attenzione va a chi fa chiasso; e costoro chiedono, in buona sostanza, il mantenimento dello status quo, dotato però di più denari. Riflettiamo. Ha senso immettere più quattrini in un sistema che ha dimostrato di non funzionare? Il dissesto dell’università italiana non è fatto solamente di aule fatiscenti e di biblioteche che da anni aspettano di essere aggiornate, è fatto anche di un’offerta formativa inadeguata a tenere il passo dei concorrenti: non solo le università americane, ma anche quelle dell’Unione europea. Pensate ai centri d’eccellenza in Italia. Vi verranno probabilmente alla mente i nomi della Bocconi e della Luiss, più qualche rara avis come i Politecnici di Milano e di Torino, alcune facoltà dell’Università Cattolica e poche altre eccezioni. Quelli sono centri da tutelare e da difendere. Il resto del sistema universitario, però, va portato al passo col mondo. Va aggiornato, perché in gioco c’è il futuro dei nostri figli. La loro capacità di maturare le competenze che gli serviranno per essere competitivi sul mercato del lavoro. Quelle competenze che potranno contribuire a tenere in Italia le nostre aziende, e ad attrarne altre da fuori. I docenti universitari che approvano e sostengono la riforma Gelmini ne hanno riassunto così le caratteristiche: riorganizza e moralizza gli organi di governo degli atenei; limita la frantumazione delle sedi, dei corsi di laurea e dei dipartimenti; introduce norme più efficaci e razionali per il reclutamento dei docenti; disarticola la parentopoli togliendo potere ai vecchi baroni e alle loro corti; stabilisce regole certe e trasparenti per disciplinare i casi di disavanzo finanziario e di malagestione; fissa criteri di valutazione per le singole sedi universitarie e per i singoli professori. Vi pare poco? Chi scrive è da sempre per l’abolizione del valore legale del titolo di studio, ed è convinto che la strada da fare per costruire un sistema universitario pienamente competitivo sia ancora lunga. Ma questo è un passo importante nella giusta direzione. Tanto più lungimirante proprio negli aspetti che destano maggiore irritazione fra gli studenti. Penso, per esempio, all’apertura a esperti esterni dei consigli di amministrazione. E stata presa come uno scandalo, ma è una piccola mossa concreta per provare a far sì che nei cda dell’università ci sia gente che sa far di conto e ha il minimo di familiarità necessaria con istituti di credito e finanziamenti. I docenti conoscono meglio di chiunque altro il loro ateneo: ma il loro ateneo deve essere integrato nel mondo, non esiste a prescindere. È importante investire a vantaggio di università e ricerca. Di più: è fondamentale. Per questo il governo, a cominciare dal presidente del Consiglio, ha insistito affinché si trovassero finanziamenti adeguati anche in una fase così delicata per le finanze pubbliche. Ma se il petrolio passa per tubature rotte, finisce che va perduto. Per evitare le spettacolari situazioni di dissesto degli ultimi anni, non ci vuole solo indipendenza ma anche capacità di governo da parte dei singoli atenei. E per avere formazione di qualità bisogna avere buoni meccanismi di valutazioni. La riforma di Mariastella Gelmini si muove proprio in questa direzione.