VELTRONI E IL PAPA NERO

Set 21st, 2010 | Di cc | Categoria: Cronaca Nazionale

Quando ho sentito parlare di “papa nero” nel Partito democratico, la mia memoria è corsa lontano nel tempo. Anni settanta, Pescara, Casa dei padri Gesuiti, sala da pranzo. Ero l’unico laico tra una decina di sacerdoti. E l’anziano prete a capotavola - che io non sapevo all’inizio chi fosse -, quando gli fui presentato come un giovane sindacalista, chiese subito se militavo nella Cgil. Gli risposi d’impeto che ero della Cisl e che i Gesuiti preferivano quelli della Cgil. Un grande sorriso sbocciò sulle labbra del vecchio sacerdote, eppoi la risposta secca che suonava su per giù così: “noi andiamo dove c’è bisogno”. Quel  Gesuita dai capelli bianchi e dal sorriso accattivante era il “papa nero” dell’epoca, padre Pedro Arrupe, Preposito generale della Compagnia di Gesù. Così viene chiamato  il capo dei Gesuiti. C’entra poco il mio ricordo personale con la vicenda recente del Pd? In parte si. Valter Veltroni, quando invoca un papa straniero, dimentica chi ha nelle mani le chiavi del potere. Si scorda anche le dinamiche interne al suo partito e l’ex “fusione fredda” che diede vita al Pd e portò lui, Veltroni, al soglio di segretario. Eppure, certe cose dovrebbe conoscerle  più di altri, proprio perché quelle chiavi, non troppo tempo fa, era lui a possederle. Arrupe, a causa del sostegno dato alla teologia della liberazione in America Latina, pur avendo giurato fedeltà al Papa, ebbe seri problemi con  Giovanni Paolo II.

             Il rischio che corre oggi Veltroni, insieme ai  firmatari del documento “movimentista”, è l’isolamento nel partito. L’idea di uscire dalla minoranza creando un movimento “di partecipazione civile e culturale” d’appoggio al suo partito, è più pericolosa di una corrente super pesante – ad esempio quella Dorotea – nell’ex Balena Bianca. E’ ipotizzare un papa bianco e uno nero quasi con gli stessi poteri. E’ pensare di poter costruire “la teologia della liberazione” dalle logiche interne,  senza  che ci siano pesanti ripercussioni da parte di Bersani e dei suoi sostenitori. Perché, nell’impostazione della leadership ormai in voga nel nostro Paese, non ci può essere che un solo leader carismatico per ogni raggruppamento politico. E’ lui e solo lui il papa, superbianco. Con questo non voglio sostenere che non c’è qualità nel documento sottoscritto da Veltroni, Fioroni e gli altri 73 firmatari. Anzi, è uno sforzo di analisi e di proposte che va apprezzato, specialmente in una situazione di carenza d’idee innovative per uscire dall’impasse.  Hai voglia però ad affermare, come si legge nel documento,  che bisogna passare dalla “delega carismatica” alla “responsabilità condivisa”. Sarebbe un’ottima cosa, ma finché il modello di riferimento resterà Berlusconi, non ci sarà niente da fare. Nel suo contesto Berlusconi è il capo indiscusso, diciamo il padrone che licenzia quando vuole (leggi Gianfranco Fini e compagnia). E’ stato lui ad inventare la nuova destra italiana. Probabilmente con la sua uscita di scena quel modello finirà. In Berlusconi il carisma c’è, è connaturale. Gli viene dall’invenzione personalissima di Forza Italia e dai passi successivi compiuti, fino alla creazione del Popolo della libertà. Nel Pd il carisma del segretario del partito è artificiale. Lo procurano i notabili e l’apparato, pronti però a farlo scomparire, a cancellarlo,  al primo stormire di fronde. E Veltroni lo dovrebbe ben sapere.  Ipotizzare, allora, un partito - come previsto dall’art. 49 della Costituzione – affiancato da un movimento d’opinione - “che si proponga di aumentare il consenso al  Pd coinvolgendo forze interne ed esterne al Partito” - è un’idea affascinante, ma probabilmente per un’altra compagine politica che non sia il Pd che ha radici ancora solide nel vecchio PCI.

            Il dato significativo che Veltroni e Fioroni portano nel loro documento, a sosteno delle loro tesi, è il crollo dei consensi del Pd. Dal 34 per cento dei voti -quando Berlusconi e la sua compagine era ben forte - al 25 per cento nell’attuale situazione di grave difficoltà del centrodestra. E’ questo  il vero interrogativo a cui dare una risposta. Perchè? E la risposta, quindi l’analisi, deve essere sincera. Senza le inutili giustificazioni che trovano il tempo che trovano. La risposta al perché deve però partire da lontano con chiari “mea culpa”. Perché il Pd sottovalutò il conflitto d’interesse? Perché non fece di tutto  per non far passare la legge “porcata”? Perché non provò a ipotizzarne, quando aveva la possibilità, una nuova legge elettorale? Perché, di fronte all’implosione del centro destra, non ha cavalcato le elezioni anticipate dando l’idea di temerle sopra ogni altra cosa? Sarebbero risposte liberatorie, che consentirebbero al Partito democratico di guardare al futuro avendo metabolizzato gli errori del passato. Dopo questa operazione potrà costruire il programma per arrivare ad avere nel nostro Paese una “democrazia decidente”, come è sostenuto nel documento dei 75. E solo successivamente dovrà porsi il dilemma del papa bianco o nero che sia. La fisionomia del candidato premier e del gruppo che lo sorreggerà sarà ben impressa, come una decalcomania, nel famoso programma da elaborare. C’è poi la questione di come rinnovare la classe dirigente. E’ più facile disegnare un programma e delle alleanze, che non un nuovo gruppo dirigente. Ma le gambe di qualsiasi progetto sta negli uomini che lo dovranno realizzare. La carta vincente è questa e non altre.

di Elia Fiorillo

           

           

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