Europa sotto assedio
Nov 24th, 2015 | Di cc | Categoria: Politica
Il rischio del silenzio complice per paura.
di Edoardo Barra
Passano le ore, i giorni, ma non sfuma, e nemmeno può attenuarsi, il senso di vuoto e angoscia dettato dalla consapevolezza d’avere la guerra in casa. Parigi è stato un caso, studiato a tavolino ma pur sempre un caso. Poteva essere Roma o Madrid, Bruxelles o un altro aereo a esplodere in volo. L’Europa si è improvvisamente resa conto di essere al centro di un conflitto violento e crudele. Non è bastata la scia di sangue degli anni passati per capirlo. Anche la strage di Charlie Hebdo è stata dimenticata troppo in fretta. Riposta nella soffitta dei ricordi come un avvenimento drammatico la cui opera poteva essere attribuita a cani sciolti. Certo c’erano state le analisi storico filosofiche, le prese di posizioni, le candele, le lacrime, le manifestazioni in cui l’importante è stare in prima fila, poi il silenzio. Scordiamo in fretta, il nostro tempo si consuma nella frenesia, tra cellulari e computer, impegni e contatti veloci.
Quello che sta avvenendo in questi giorni ha mostrato i limiti del nostro vivere. Inaspettatamente, senza esserne preparati, si è parata davanti la scena assurda e tragica di un dolore lancinante che ha squarciato sicurezze e determinazioni. Si, ci siamo fermati. Ci siamo guardati intorno scoprendo che la strada su cui corriamo altro non è che un sentiero incerto e polveroso. Le immagini in diretta, i corpi straziati, i poliziotti che arretrano dietro un angolo di strada sotto i colpi sparati da un nemico nascosto, il boato sordo di un’esplosione che racconta la fine di una vita hanno squarciato ogni sicurezza. L’angoscia proveniente da una città come Bruxelles posta in stato di assedio, chiusa, spettrale, con le strade lasciate a chi cerca il nemico è una rappresentazione devastante. Per troppo tempo abbiamo mentito a noi stessi nascondendo la minaccia. Ora, in tutta Europa, si scoprono basi del terrore, armi e terroristi che hanno attraversato indisturbati le nostre frontiere, vissuto accanto a noi, che hanno maturato il loro odio mentre ci sorridevano. Dove eravamo per non accorgerci di questo? E ancora ci perdiamo dietro a mille rivoli di chiacchiere spesso senza guardare in faccia la realtà. No, questa non è una guerra di religione, affermarlo sarebbe ipocrita e azzardato, ma certamente è un confronto duro e senza freni tra due logiche di vita. Logiche lontane, inconciliabili, troppo diverse per convivere. Bene hanno fatto le comunità islamiche in Italia (e non solo) a prendere le distanze da omicidi che hanno poco a che vedere con la fede. “Not in my name” è stato uno slogan chiaro e la condanna di ogni forma di terrorismo è stata netta, ma dalle manifestazioni di Roma e Milano ci si aspettava una maggiore partecipazione e questo è un aspetto sul quale occorre riflettere con estrema attenzione. Ci si deve chiedere come mai, con la pressione dettata dalla situazione, con gli Iman delle comunità che hanno compreso la necessità di rimarcare le differenze, una simile manifestazione non ha trovato il riscontro che poteva e doveva avere. Le ragioni possono essere diverse, ma c’è ne una che deve preoccupare più delle altre ed è quella dettata dalla paura. Le comunità straniere, soprattutto se caratterizzate da tratti religiosi, si muovono in ambiti ben delineati dove è normale che circolino voci e informazioni. Da qui il probabile terribile timore ad esporsi, a mettersi contro qualcosa di cui magari non si accetta il senso ma che comunque appare teso a colpire gli altri, il terrore di essere additati come rinnegati e pagarne le conseguenze. Quello del silenzio “complice per paura” è un grande, enorme rischio che si corre. Appare infatti difficile immaginare come nessuno nell’ambito delle collettività islamiche sui territori avesse almeno il sospetto della presenza di certe attività. Eppure nulla è trapelato. Ciò vale per il Belgio, la Francia, l’Italia e ogni altra nazione interessata al fenomeno. Allora occorre, e in fretta, capire come intercettare il panico che serpeggia tra chi potrebbe essere a conoscenza anche solo di bricioli di verità e decodificarlo in maniera corretta. Il tutto garantendo la sicurezza necessaria. Far questo non significa però abbandonare le nostre tradizioni e il nostro credo, anzi. La sicurezza si trasmette anche attraverso la fermezza della propria identità e cultura. Spesso l’eccessiva permissività è scambiata per debolezza e chi appare debole non è mai ritenuto affidabile nella protezione soprattutto se dall’altro lato c’è qualcuno che colpisce nell’ombra e senza pietà. Abbiamo letto di studenti islamici che hanno abbandonato la classe durante il minuto di raccoglimento per le vittime francesi, ebbene anche questo segnale deve essere opportunamente valutato. E’ difficile immaginare che ragazzi nemmeno maggiorenni offendano in tal modo l’ambiente in cui loro stessi crescono. No, ci sono ragioni ben più profonde, determinate da un retroterra, da una situazione contingente e da una volontà di evidenziare le differenze, cose queste di cui dobbiamo prenderne atto. Non possiamo più permetterci di tergiversare o lasciarci andare a elucubrazioni pseudo libertarie, è il momento in cui occorre agire in profondità con decisione, intelligenza e risolutezza.