IMMIGRAZIONE, OPPORTUNITA’ E PREGIUDIZI

Nov 21st, 2014 | Di cc | Categoria: Politica

Da alcune settimane si assiste all’addensamento, ciclicamente ricorrente, di sbarchi di migranti lungo le coste italiane; e, come ogni volta che ciò si verifica, dalla polemica intorno alla gestione dei flussi migratori si trapassa velocemente alla questione dell’immigrazione tout court.

Che il dibattito intorno alle migliori strategie da adottare, onde affrontare l’emergenza sbarchi, sia giusto e pio, è fuor di dubbio; del resto, da gran tempo ormai, è giunto il momento che l’Europa tutta faccia seriamente la sua parte, considerato che nella maggioranza dei casi l’Italia rappresenta solo una porta d’accesso, attraverso cui i migranti intendono raggiungere le ben più ambite Francia, Germania e via dicendo.

Quando la questione, invece, si sposta sull’impatto generale della presenza straniera nella società italiana (argomento, questo, che per la sua complessità, andrebbe affrontato con estrema cautela), fioriscono le facili e demistificanti generalizzazioni, talvolta strumentali alla gretta ricerca del consenso politico – elettorale, talaltra frutto di (pre)giudizi epidermici, talaltra ancora a sfondo, nemmeno tanto velatamente, xenofobo.

Un serio argomentare, ancorato al senso vigile della distinzione, per comprendere adeguatamente il fenomeno dovrebbe riconoscere nell’immigrazione non un monolite informe ma un poliedro estremamente sfaccettato: dapprima differenziando l’immigrazione extra – comunitaria da quella comunitaria (specie neo – comunitaria), quella legale da quella clandestina, l’immigrazione indotta da motivazioni economico – lavorative da quella prodotta dalle continue guerre, genocidi e violazioni dei diritti umani che affliggono ancora numerose parti del globo, l’immigrazione di passaggio ovvero stagionale (si pensi al massiccio afflusso di africani in Campania e in Calabria, nel periodo della raccolta dei pomodori e delle arance) da quella potenzialmente stabile, l’immigrazione che ha di mira l’imprenditoria (e il riferimento è, ovviamente, alla comunità cinese) da quella che si relega ai lavori più umili; indi articolando ulteriormente le categorie summenzionate per ciascuna delle etnie e delle nazionalità che compongono il variegato universo dei migranti, ciascuna caratterizzata da usi, costumi, tradizioni e credi religiosi loro propri, talvolta sostanzialmente analoghi e sovrapponibili alla società italiana, talaltra, e il più delle volte, distanti, se non addirittura agli antipodi.

Solo così procedendo potrebbe acquisirsi quel bagaglio empirico, utile ad orientarsi nella comprensione della reale portata del fenomeno (anzi, dei fenomeni) migratori e a formulare e predisporre politiche di accoglienza, integrazione e contenimento realmente efficaci. Operazione conoscitiva, questa, in continua evoluzione, sempre perfettibile, cui contribuiscono eserciti di demografi, sociologi, economisti e politici, chiaramente non condensabile in queste brevi note.

Ciò che preme al sottoscritto è, piuttosto, individuare (e tentare di sfatare) alcuni luoghi comuni i quali, benché fattualmente smentibili e smentiti, godono di efficace presa in larghi strati di opinione pubblica.

Si dice “gli immigrati tolgono il lavoro agli Italiani”.

L’affermazione è fascinosa; non si nega che essa possa trovare un apparente riscontro nell’esperienza quotidiana, ove si osservano numerosissimi lavoratori italiani (soprattutto giovani) in stato di disoccupazione e altrettanto numerosi lavoratori stranieri impiegati, e nemmeno si disconosce che si verificano casi di potenziali lavoratori italiani inesorabilmente spiazzati dai bassi costi e dalla più facile manovrabilità della corrispettiva manodopera straniera.

Ma la realtà, a ben guardare, è altra. Potrebbero perfino citarsi, a sostegno, i rapporti del Censis, sul punto oramai concordi da anni, ma a spiegare la questione sono più che sufficienti i propri occhi e il buon senso.

Dato incontrovertibile è che il numero maggiore di lavoratori stranieri (praticamente tutti i clandestini e la gran parte dei regolari) svolge occupazioni puramente manuali, a bassissimo/nullo tasso di specializzazione, di natura sovente intermittente o stagionale, caratterizzate da scarsi livelli retributivi. In una parola, che sia il bracciante agricolo, l’operaio non specializzato, la donna delle pulizie, il lavapiatti o la badante, lavori che il tipo di lavoratore medio italiano non ricerca più da tempo, essendo quest’ultimo sociologicamente orientato, anche per non elevati livelli di istruzione, verso il terziario, l’imprenditoria e il commercio.

Detto ciò, appare evidente che la manodopera straniera, ben lungi dal sottrarre opportunità lavorative agli italiani, risulta essenziale per il mantenimento di talune filiere nazionali: si pensi all’agricoltura dove, dalla pianura Padana alla Sicilia, non vi è ortaggio che non sia raccolto da braccianti indiani e che, in mancanza di questi ultimi, rischierebbe seriamente di rimanere a terra.

Per gusto di paradosso, ma neanche troppo, si potrebbe aggiungere che, semmai, la presenza massiccia di stranieri produce talune occasioni di lavoro per noi italiani; valga l’esempio del comparto scuola dell’obbligo ove, a fronte della consolidata stagnazione demografica che affligge il nostro Paese, la presenza dei figli degli immigrati riesce a garantire la formazioni di classi in numero tale da giustificare ancora il numero elevato di maestri e professori italiani.

Si dice, ancora, “gli immigrati causano un travaso di ricchezza dall’Italia verso i loro paesi d’origine”.

Sarà pur vero che l’intenzione di ogni immigrato è quella di risparmiare danari per l’acquisto, generalmente, di una casa o l’apertura di un attività nel proprio Paese ed essi, generalmente, sono usi trasferire somme ai parenti da cui si sono separati.

Ma è altrettanto vero che la vita quotidiana di queste persone, con le sue spese di necessità e di svago, viene svolta in Italia; queste persone prendono in affitto le abitazioni, magari in forma comune ma in Italia (si pensi, ora che ogni città alla sua piccola Chinatown, alle laute pigioni ricavate dai proprietari dei locali che ospitano i numerosi negozi e ristoranti gestiti da soggetti appartenenti a questa comunità). Si pensi a quegli immigrati, invero la minoranza ma in numero comunque apprezzabile, che riescono a farsi imprenditori, dedicandosi al commercio, alla ristorazione o all’impresa edilizia: ebbene, detti soggetti costituiscono società in Italia, si approvvigionano da fornitori italiani, pagano le imposte e le tasse allo Stato Italiano, peraltro con un atteggiamento fiscale mediamente più virtuoso.

Se poi, in aggiunta, si considera che tanta parte di immigrati non riesce a mettere da parte nemmeno un euro, svolgendo una vita di pura sussistenza ove i soldi vengono integralmente spesi per le necessità di ogni giorno, si comprenderà che questo travaso di ricchezza dall’Italia ai paesi di origine è solo apparente.

In realtà, il denaro che finisce nelle mani degli immigrati, nella sua ben nota mobilità, circola eccome ma circola per la gran parte all’interno dei confini italiani, contribuendo a scuotere l’economia nazionale. E l’Istat, ogni anno, quantifica il PIL prodotto dagli immigrati, regolari e non: fetta non indifferente del totale, comunque più che sufficiente a coprire e avanzare la spesa per sevizi sanitari, sociali e assistenziali che il Pubblico Erario deve sopportare per gli immigrati.

Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, i temi da toccare sarebbero tantissimi (dalla cittadinanza, alle modalità di partecipazione alla vita pubblica, ecc.), ma, a parere di chi scrive, la conclusione, anzi la constatazione, è una soltanto, anche se può sembrare cinica. Valori costituzionali di solidarietà, uguaglianza e accoglienza a parte, la presenza immigrata, e l’immigrazione in generale, in Italia così come in ogni altro Paese, è la valvola di sfogo, la camera di decompressione, delle inevitabili tensioni tra Nord e Sud del Mondo.

E’ un fatto che le aree più depresse del mondo sono anche quelle maggiormente ricche in termini di risorse e materie prime; è un fatto che lo stato di sottosviluppo e instabilità di queste aree è la risultante, consapevolmente perseguita, di politiche colonialiste e neocolonialiste che, dalla Rivoluzione Industriale ad oggi, l’Europa e il Nord America ha adottato verso queste regioni per gestire e appropriarsi delle risorse e garantirsi mercati esclusivi; è una conseguenza altrettanto ovvia che se questi Paesi tutti uscissero completamente dallo stato di minorità in cui si trovano tutt’ora e incominciassero a vendere a prezzo di mercato le proprie materie prime e prodotti (come, del resto, hanno iniziato a fare da alcuni anni la Cina e l’India, non a caso detti paesi emergenti), se questi Paesi iniziassero a gestire direttamente i traffici e gli scambi, magari chiudendo i rubinetti del gas a discrezione, come insegna lo Zar Putin ogni volta che deve fare la voce grossa al Mondo; se tutto ciò succedesse, sicuramente non avremmo più immigrazione ma la nostra piccola economia ne verrebbe spazzata via, diverremmo noi Terzo Mondo, torneremmo noi ad essere un popolo di emigranti.

In conclusione, l’immigrazione può piacere o no, può essere percepita come un opportunità o come un problema, ma è sicuramente il tributo, necessario e forse anche conveniente, che la nostra società deve pagare al Terzo Mondo per conservarsi opulenta.

Giovanni Rempiccia

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