53mo anniversario della “Mater et Magistra” di San Giovanni XXIII
Mag 18th, 2014 | Di cc | Categoria: Religione“Madre e maestra di tutte le genti”: con queste parole iniziava la Lettera Enciclica Mater et magistra di Papa Giovanni XXIII datata 15 maggio 1961. Il Santo Padre intendeva indicare all’umanità e ad un mondo che stava cambiando un porto sicuro, un faro perenne: la Chiesa, quale colonna e fondamento di verità. A cinquant’anni di distanza quelle parole appaiono ancora nobili e lungimiranti ed, al contempo, molto lontane da certo relativismo che vorrebbe ridurre la Chiesa a semplice “accompagnatrice”, “compagna di viaggio”, “discepola” e quindi non maestra né tantomeno madre. La sollecitudine del Pontefice era rivolta all’uomo nella sua concretezza, spirito e materia, intelletto e volontà, ponendogli l’obiettivo della salvezza dell’anima da una parte, a cui la Chiesa poteva soccorrere soprattutto (ma non solo) attraverso i Sacramenti, e, dall’altra parte, il soddisfacimento delle umane esigenze del vivere quotidiano. Riprendendo i più recenti sviluppi della questione sociale alla luce della dottrina cristiana, Papa Giovanni intendeva lanciare un ponte, a distanza di settant’anni, all’immortale enciclica Rerum novarum di Leone XIII, che, secondo le testuali parole del Pontefice, fa dell’enciclica una summa del cattolicesimo in campo economico-sociale. Mater et magistra si colloca quindi, secondo le intenzioni del Pontefice ed in questo senso va letta, nel solco degli insegnamenti dell’enciclica Rerum novarum e nei tempestivi sviluppi del magistero successivo di Pio XI e di Pio XII. Dinanzi ad un ordine economico e sociale sconvolto, la Chiesa ribadiva il sostegno a tutti coloro che, per diverse condizioni, soffrivano, ovvero ai fanciulli, alle donne ed alle famiglie intere. Giovanni XXIII intendeva così rendere omaggio a Leone XIII, che non esitò a proclamare e a difendere i legittimi diritti dell’operaio in quanto il lavoro deve essere valutato e trattato non già alla stregua di una merce, ma come espressione della persona umana. Si ritorna ad un caposaldo della dottrina sociale naturale e cristiana e cioè la concezione della tutela della persona, unione indissolubile di anima e corpo. La persona che, creata ad immagine e somiglianza di Dio, non doveva venire a trovarsi in condizioni di crescente disagio (economico, morale e sociale). Ribadendo il valore della proprietà privata quale diritto naturale che lo Stato non poteva sopprimere, la Chiesa si poneva in continuità con il precedente Magistero ed a fianco della persona e dei corpi intermedi (in primis la famiglia), incoraggiando, sostenendo e denunciando gli abusi e le offese alla dignità personale, familiare, economica e sociale. In questo senso andava recepita la condanna del liberismo sfrenato e della lotta di classe in senso marxistico che, sempre nelle parole del Pontefice, sono contro natura e contrarie alla concezione cristiana della vita. Anche attraverso l’enciclica del 1931: “Quadragesimo anno” di Pio XI si dissipavano i dubbi, per i cattolici, nei confronti di ogni forma di socialismo, anche moderato. Così si esprimeva inequivocabilmente il Santo Padre: “Non è da ammettersi in alcun modo che i cattolici aderiscano al socialismo moderato: sia perché è una concezione di vita chiusa nell’ambito del tempo, nella quale si ritiene obiettivo supremo della società il benessere, sia perché in esso si propugna una organizzazione sociale della convivenza al solo scopo della produzione, con grave pregiudizio della libertà umana”. Queste frasi, ancora molto attuali, non dovrebbero portare a tentennamenti, soprattutto coloro che pensano, come cattolici impegnati in politica, di appoggiarsi agli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa. Nel ribadire l’opposizione radicale tra comunismo e cristianesimo, la quale portò nel 1949 alla scomunica del comunismo, il Pontefice intendeva presidiare la vera libertà della persona, anche condannando, assieme al comunismo, l’imperialismo internazionale del denaro. Questo sconvolgimento dell’ordine naturale e sociale, dettato dalle disumane ideologie e dai totalitarismi che ne sarebbero derivati, sarebbe stato ricomposto se si fosse riconosciuto il vero ordine istituito da Dio. Per porre rimedio a tale devastante disordine, il supremo Pastore indicava i principi fondamentali, il reinserimento del mondo economico nell’ordine morale e il perseguimento degli interessi, individuali e di gruppo, nell’ambito del bene comune. Anche il Radiomessaggio della Pentecoste 1941 di Papa Pio XII, a cinquant’anni dalla Rerum novarum, rivendicava alla Chiesa “la inoppugnabile competenza di giudicare se le basi di un dato ordinamento sociale siano in accordo con l’ordine immutabile che Dio creatore e redentore ha manifestato per mezzo del diritto naturale della rivelazione”. Era molto importante poiché, anche dalle condizioni economiche e sociali, poteva venir meno la possibilità di salvezza della persona e dell’umanità intera. Il Pontefice aveva a cuore tre valori fondamentali che si intrecciavano e si saldavano assieme: l’uso dei beni materiali, il lavoro, la famiglia. In merito al lavoro, Pio XII ribadiva che esso fosse simultaneamente un dovere e un diritto dei singoli esseri umani. Riguardo la famiglia, il sommo Pontefice affermava che la proprietà privata dei beni materiali andava considerata come spazio vitale della famiglia. Papa Giovanni XXIII, nel rinnovare la cura apostolica e la tradizione del Magistero, si poneva quindi in continuità con i venerati predecessori, rinvenendo tuttavia mutamenti sociali ed epocali sopravvenuti, ai quali la Chiesa doveva dare risposta. In campo scientifico-tecnico-economico infatti: la scoperta dell’energia nucleare, le sue prime applicazioni a scopi bellici (ricordiamo le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki), le possibilità sconfinate aperte dalla chimica nelle produzioni sintetiche, l’estendersi dell’automazione nel settore industriale, la quasi scomparsa delle distanze nelle comunicazioni per effetto soprattutto della radio e della televisione … come in campo sociale e politico soprattutto le questioni derivanti dal tramonto dei regimi coloniali, ponevano questioni scottanti all’uomo riguardanti i mezzi ed il fine della loro vita. Una nuova sfida che, agli inizi di quegli accesi anni ’60, la Chiesa non doveva e non poteva sottrarsi. Una Chiesa, madre e maestra di tutte le genti, secondo le parole conclusive dell’enciclica di Giovanni XXIII, la cui luce illumina, accende, infiamma; la cui voce ammonisce, piena di celeste sapienza; la cui virtù presta sempre rimedi così efficaci e così adatti alle crescenti necessità degli uomini, alle angustie e alle ansietà della vita presente.
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Il Magistero sociale di Giovanni XXIII è considerato un punto di “svolta” anche per quanto riguarda il rapporto fra Chiesa e “diritti umani”, nel senso di aver reso possibile l’apertura della prima ai secondi, ma è proprio vero? E’ vero senz’altro che, durante tutto il lungo pontificato di Pio XII (1939-58), la Santa Sede ha evitato accuratamente di dare un qualsiasi riconoscimento alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, a causa della sua intonazione individualistico-illuminista. Quest’utlima, in concreto, si traduceva infatti nell’assenza di un riferimento e dell’enucleazione dei doveri e, soprattutto, nella mancanza di un presupposto fondativo ai diritti. L’insegnamento di Papa Pacelli è stato “profetico” da questo punto di vista, in quanto il tema del fondamento dei diritti umani, oltre che decisivo in sé per il “funzionamento” complessivo del sistema, è divenuto poi centrale nella riflessione giuridica e filosofica dei decenni successivi, soprattutto nell’area anglosassone e iberoamericana. L’“apertura” di Papa Roncalli, d’altro canto, non contraddice l’essenza dell’orientamento di Pio XII. Se Giovanni XXIII considera la Dichiarazione universale un “atto della più alta importanza compiuto dalle Nazioni Unite” (Pacem in terris, n. 75), egli evita comunque, sia nella Mater et Magistra sia altrove, di utilizzare tanto l’espressione “diritti umani” quanto quella, esplicitamente mutuata dalla Rivoluzione francese, di “diritti dell’uomo”, preferendo quella più congeniale all’antropologia cristiana di “diritti della persona”, che ne indica l’essenziale dimensione relazionale. Come affermato dal card. Renato Martino, il fondamento naturale dei diritti e dei doveri, infatti, è “basato sul principio che ogni essere umano è persona, cioè una natura dotata d’intelligenza e volontà libera, ed appare ancora più solido se, alla luce della fede, si considera che la dignità umana, dopo essere stata donata da Dio ed essere stata profondamente ferita dal peccato, fu assunta, restaurata e potenziata da Gesù Cristo mediante la Sua incarnazione, morte e risurrezione (Cfr. Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris, 5; Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22.)” (Intervento al Congresso Internazionale del Pontificio Ateneo “Regina Apostolorum” su “La donna e i diritti umani”, Roma 18 marzo 2004). Ecco quindi che, in uno dei più importanti capitoli della Mater et Magistra, intitolato “Dio fondamento dell’ordine morale” (nn. 193-196), il “Papa buono”, allo stesso modo di Pio XII, ribadisce che “l’ordine morale non si regge che in Dio: scisso da Dio si disintegra. L’uomo infatti non è solo un organismo materiale, ma è anche spirito dotato di pensiero e di libertà. Esige quindi un ordine etico-religioso, il quale incide più di ogni valore materiale sugli indirizzi e le soluzioni da dare ai problemi della vita individuale ed associata nell’interno delle comunità nazionali e nei rapporti tra esse” (n. 193). Per questo la Dichiarazione del 1948, anche se di grande importanza, non offrendo una fondazione metafisica e morale dei diritti che sostiene, è incapace di arginare, negli oltre sessant’anni di sua vigenza, il cammino di un’umanità che, su basi materialiste (prima comunistiche poi consumistiche), ha segnato il drammatico esilio dell’uomo da sé stesso in conseguenza dell’eclissi di Dio (prima ideologicamente negato, poi praticamente ignorato). Giovanni XXIII coglie tali contraddizioni, solo che le affronta in modo diverso da Pio XII. Roncalli, infatti, apprezza ottimisticamente, a differenza di Papa Pacelli che conservava ancora la speranza di un’auto-emenda da parte dell’ONU, la “sempre più chiara coscienza di diritti inviolabili ed universali della persona” (Mater et Magistra, n. 196) allora espressa dalla comunità internazionale, senza comunque “benedire” presupposti e finalità dell’assetto dei diritti umani come allora gli apparivano in Carte, Discorsi e Dichiarazioni. Queste ultime, infatti, come scrive nella Mater et Magistra, rappresentano sicuramente un “lieto auspicio” per “intese sincere” e “collaborazioni feconde” (n. 196), ma non raccolgono certo, così come sono state pensate e scritte, il consenso della Chiesa. Allo stesso modo Giovanni Paolo II ha cercato esplicitamente una concordanza della Dottrina sociale cattolica con i principi della Dichiarazione del 1948, ma principalmente allo scopo di farne durante il “secolo assassino” (1917-1989) uno strumento di lotta contro l’ateismo, ed interpretando quindi le libertà personali da essa riconosciute prima di tutto in termini di libertà religiosa. Le contraddizioni del “sistema” dei diritti umani, comunque, sono a lui note ed evidenziate in innumerevoli circostanze, su tutte nell’Evangelium vitae, enciclica dedicata al “valore e l’inviolabilità della vita umana” (25 marzo 1995). Il Magistero di Giovanni XXIII coglie il pericolo in nuce, ma quello del Papa neo-beato lo addita esplicitamente ai fedeli, dopo che in oltre un trentennio i “signori” dei diritti umani sono arrivati esplicitamente ad affermare, nello stesso tempo, la libertà personale e la liceità delle nuove forme di schiavitù come “la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno” (Evangelium vitae, n. 3), a proclamare il diritto alla vita sancendo contemporaneamente l’aborto e l’eutanasia ed, infine, a proclamare l’uguaglianza giuridica delle nazioni ma, insieme, a legittimare la “risoluzione” solo di alcuni conflitti con la forza “umanitaria” ma, in quanto parziale, del tutto arbitraria.
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Prima di iniziare il concilio Vaticano II, aperto solennemente l’11 ottobre 1962 dopo l’annuncio dell’aprile 1959, papa Giovanni XXIII [Angelo Giuseppe Roncalli, Sotto il Monte (Bg)25-11-1881, Roma 3-06-1963] scrisse nel maggio 1961 la sua quinta enciclica: Mater et Magistra. Se spesso il magistero pontificio viene definito profetico, questa enciclica mostra una volta di più che quell’aggettivo è appropriato e non enfatico. Tra i vari aspetti trattati, all’occhio dell’appassionato di bioetica non può sfuggire la rilevanza di alcuni punti chiave dei moderni dibattiti: il senso della scienza e della sua applicazione tecnologica, il ruolo della indagine matematica per delineare scenari futuri ed elaborare teorie di azioni sociali, le tentazioni di reificazione dell’umano. Troppo semplicistico, forse, ora dire che allora c’era già tutto, ma è interessante notare come le categorie della antropologia e della teologia cristiane offrano in ogni tempo le chiavi di lettura del presente, grazie ad una chiaroveggenza (un “vedere chiaramente”) che non sta tanto nella abilità personale di un Pontefice quanto piuttosto intrinsecamente nel munus petrino. Conferma consolante della perenne affidabilità della promessa di Gesù: sarò con voi fino alla fine dei tempi, la capacità di decifrare la realtà anche nelle sue declinazioni prossime venture non ha nulla a che fare con una magica lettura di una sfera di cristallo, bensì con la maternità della Chiesa che “esperta in umanità” sa scorgere pericoli e opportunità per i suoi figli, come una madre umana sa fare per i frutti delle sue viscere; e che in questa capacità fonda la responsabilità ineludibile di educare, di - appunto - “introdurre alla realtà”. Che questo materno dovere, inscritto nella magisterialità della Chiesa, sia riferito anche alla dimensione sociale del vivere umano, oltre che alla dimensione personale di ciascuno, è dimostrazione della natura ecclesiale della Chiesa stessa, del suo essere comunità di redenti. Ecco perché la dottrina sociale della Chiesa non può essere ridotta ad un elenco di consigli procedurali per stabilire la giustizia nel mondo, ma da sempre fonda e riannuncia il perché e il come è possibile per ciascuno agire con giustizia. E questo non può prescindere dalla verità sull’uomo, sulla sua natura, sulla sua dimensione trascendente velata dalle contingenze, dal suo destino di eterna felicità. Senza una adeguata scoperta della verità sull’essere umano non è possibile trovare un modo vero e adeguato di vivere insieme, di costruire società. Ricorda Benedetto XVI nella enciclica Caritas in veritate che “[5] la dottrina sociale della Chiesa […]«è caritas in veritate in re sociali»: annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società. Tale dottrina è servizio della carità, ma nella verità.” Nella Mater et Magistra, là dove si legge “[200] Pertanto, qualunque sia il progresso tecnico ed economico, nel mondo non vi sarà né giustizia né pace finché gli uomini non ritornino al senso della dignità di creature e di figli di Dio, prima ed ultima ragione d’essere di tutta la realtà da lui creata. L’uomo staccato da Dio diventa disumano con se stesso e con i suoi simili, perché l’ordinato rapporto di convivenza presuppone l’ordinato rapporto della coscienza personale con Dio”, è suggestiva l’eco ancora con la Caritas in veritate: “[23] Molte aree del pianeta, oggi, seppure in modo problematico e non omogeneo, si sono evolute, entrando nel novero delle grandi potenze destinate a giocare ruoli importanti nel futuro. Va tuttavia sottolineato come non sia sufficiente progredire solo da un punto di vista economico e tecnologico. Bisogna che lo sviluppo sia anzitutto vero e integrale.”[29] “. Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad “essere di più”. “[4] l’adesione ai valori del Cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale.” Nel 1961, prima che contraccezione, divorzio, aborto, eutanasia, manipolazione genetica, fecondazione artificiale divenissero parole (e pratiche concrete) ammantate di tanta dignità e positività da non essere neppure più discutibili , Giovanni XXIII scriveva parole che, sebbene non riferite nel contesto a questi temi specifici, pure sono validamente ad essi applicabili: “[178] dobbiamo subito affermare chiaramente che quei problemi non vanno affrontati e quelle difficoltà non vanno superate facendo ricorso a metodi e a mezzi che sono indegni dell’uomo e che trovano la loro spiegazione soltanto in una concezione prettamente materialista dell’uomo stesso e della sua vita.” Si pensi al problema della sterilità di coppia, in cui l’utilizzo di tecniche di fecondazione artificiale è oggi proposta come soluzione e che invece non rende giustizia alla dignità umana: “[180] Perciò non si possono usare mezzi e seguire metodi che possono essere leciti nella trasmissione della vita delle piante e degli animali.” È ovvio che il beato Giovanni XXIII ben poco poteva prevedere delle iniezioni intracitoplasmatiche di singolo spermatozoo nella ICSI, ovvero della tecnica oggi più gettonata nella fecondazione artificiale, ma il principio della sostanziale differenza tra esseri umani e tutto il resto del creato era strumento bastante per affrontare il problema. Certo, la deep ecology, la teoria della Terra come Gaia - organismo vivente di dignità pari se non superiore a quella dell’uomo - erano già affiorate in alcune opere di una letteratura che - allora considerata “minore”, la fantascienza - in verità stava offrendo un contributo significativo a prospettive antropologiche che via via si sono sviluppate fino alle teorie del gender; ma davvero era difficile prevedere che la tecnica, sostenuta da una scienza che non si interroga più sul senso dell’agire, avrebbe compiuto passi così veloci e avanzati. Meno difficile, invece, mettere in guardia sulle derive pratiche che potevano arrivare da mentalità che, già nel 1961, erano il fiore all’occhiello delle “sorti magnifiche e progressive”: “[194] Si è affermato che nell’era dei trionfi della scienza e della tecnica gli uomini possono costruire la loro civiltà, prescindendo da Dio. La verità invece è che gli stessi progressi scientifico-tecnici pongono problemi umani a dimensioni mondiali che si possono risolvere soltanto nella luce di una sincera ed operosa fede in Dio, principio e fine dell’uomo e del mondo. [202] l’aspetto più sinistramente tipico dell’epoca moderna sta nell’assurdo tentativo di voler ricomporre un ordine temporale solido e fecondo prescindendo da Dio, unico fondamento sul quale soltanto può reggere; e di voler celebrare la grandezza dell’uomo disseccando la fonte da cui quella grandezza scaturisce e della quale si alimenta, e cioè reprimendo e, se fosse possibile, estinguendo il suo anelito verso Dio.” La presenza di temi antropologici e addirittura bioetici in una enciclica dichiaratamente sociale è una bellissima conferma, spesso dimenticata al punto che la recente Caritas in veritate ha destato scalpore quando lo ha ricordato, che ogni questione sociale è sostanzialmente una questione antropologica. Eppure ogni documento del Magistero ha, in fondo, un’unica finalità: svelare l’uomo all’uomo, annunciare nelle diverse situazioni della vita, nelle circostanze e nei passaggi cruciali della storia, che Cristo è Dio, incarnato morto e risorto per salvare ogni uomo. Qualsiasi cosa o persona abbia la pretesa di sostituire la potestà redentrice di Cristo opera un inganno mortale: nei singoli uomini come nelle società, grandi o piccole che siano. Insomma, l’idolatria è un pesante fardello per la ragione e la sua capacità di elaborare le civiltà. [227] Certo la Chiesa ha insegnato in ogni tempo e continua sempre ad insegnare che i progressi scientifico-tecnici e il conseguente benessere materiale sono beni reali; e quindi segnano un importante passo nell’incivilimento umano. Però essi devono essere valutati per quello che sono secondo la loro vera natura, e cioè come beni strumentali o mezzi che vanno utilizzati per un più efficace perseguimento di un fine superiore, quale è quello di facilitare e promuovere il perfezionamento spirituale degli esseri umani tanto nell’ordine naturale che in quello soprannaturale.[224] Similmente il pontefice Pio XII a ragione afferma che la nostra epoca si contraddistingue per un netto contrasto fra l’immenso progresso scientifico-tecnico ed un pauroso regresso umano, consistendo il “suo mostruoso capolavoro nel trasformare l’uomo in un gigante del mondo fisico a spese del suo spirito ridotto a pigmeo nel mondo soprannaturale ed eterno”. Come non condividere queste riflessioni? La nascita della stessa bioetica (neologismo e intuizione metodologica dell’oncologo americano Van Rensselaer Potter [1911 –2001] che per primo ne parla nel 1970) sgorga dalla amara constatazione che sapere scientifico e sapere umanistico sono ormai separati e che la tecnica fornisce sì, in parte, risposte a domande non ancora poste, ma dall’altra non sa trovare autonomamente il senso delle sue azioni. C’è bisogno di una scienza multidisciplinare che leghi le diverse competenze e tutte le metta al servizio del futuro, delle nuove generazioni. L’ampiezza della prospettiva, la consapevolezza dell’unicum biologico e metafisico che è l’essere umano, la sollecitudine per un ben-essere che non sia solo promesso utopicamente sono garanzie di impegno concreto: “[209] Una dottrina sociale non va solo enunciata, ma anche tradotta in termini concreti nella realtà. Ciò tanto è più vero della dottrina sociale cristiana, la cui luce è la verità, il cui obiettivo è la giustizia e la cui forza propulsiva è l’amore”. Così il magistero di Giovanni XXIII ha il coraggio di affermazioni sorprendentemente anticipatorie, negli anni in cui le teorie maltusiane sembravano dogmi intoccabili: “[175] A dire il vero, considerato su piano mondiale, il rapporto tra incremento demografico da una parte e sviluppo economico e disponibilità di mezzi di sussistenza dall’altra, non sembra, almeno per ora e in un avvenire prossimo, creare gravi difficoltà: in ogni caso, troppo incerti ed oscillanti sono gli elementi di cui si dispone per poterne trarre conclusioni sincere.” “176] Inoltre Dio, nella sua bontà e nella sua sapienza, ha diffuso nella natura risorse inesauribili e ha dato agli uomini intelligenza e genialità per creare gli strumenti idonei ad impadronirsi di esse e a volgerle a soddisfazione dei bisogni e delle esigenze della vita. Per cui la soluzione di fondo del problema non va ricercato in espedienti che offendono l’ordine morale stabilito da Dio e intaccano le stesse sorgenti della vita umana, ma in un rinnovato impegno scientifico-tecnico da parte dell’uomo ad approfondire ed estendere il suo dominio sulla natura.” Solo il delirio ideologico può costringere interi popoli alle contraccezioni imposte, agli aborti selettivi ed eugenetici, alle politiche di denatalità che hanno caratterizzato la seconda metà del secolo scorso e oggi mostrano tutta la loro carica socialmente distruttiva: tra l’altro, in occidente, un mondo di vecchi con carichi pensionistici che nessuna forza lavoro giovanile è in grado di sostenere e, in oriente, la mancanza di intere generazioni femminili. Non è dunque solo una testarda fissazione clericale, quella di collocare la dimensione procreativa nella corretta visione antropologica nella quale sia salvaguardata la responsabilità e la preziosità di ogni vita umana, bensì esigenza di sopravvivenza planetaria: “[180] Dobbiamo proclamare solennemente che la vita umana va trasmessa attraverso la famiglia, fondata sul matrimonio uno e indissolubile, elevato, per i cristiani, alla dignità di sacramento. La trasmissione della vita umana è affidata dalla natura a un atto personale e cosciente e, come tale, soggetto alle sapientissime leggi di Dio: leggi inviolabili e immutabili che vanno riconosciute e osservate”. “[185] Dio provvido concede al genere umano sufficienti mezzi per risolvere in forma dignitosa anche i molteplici e delicati problemi attinenti alla trasmissione della vita: ma quei problemi possono diventare di difficile soluzione o insolubili perché gli uomini, deviati nella mente o pervertiti nella volontà, si valgono di quei mezzi contro ragione e cioè per fini che non sono quelli che rispondono alla loro natura sociale e ai piani della Provvidenza.” Possa, questo anniversario della pubblicazione della Mater et Magistra, aiutare la riflessione e riaccendere l’impegno a usare tutta intera la misura della ragionevolezza umana; possano cadere le diffidenze verso un insegnamento così carico di intuizioni; possa questo Papa con la fama di “bontà”, Giovanni XXIII, suscitare una maggiore disponibilità all’accoglienza del servizio all’umanità che da sempre è il magistero della Chiesa Cattolica.
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L’impresa non è un tema “esplicito” dell’Enciclica Mater et Magistra, concentrata soprattutto sui temi delle relazioni di lavoro e dei sistemi economici; nondimeno, nel documento - con grande attualità - traspare una visione dell’impresa che può essere, senza dubbio, definita profetica. Infatti, Giovanni XXIII - nel solco del Magistero precedente, ma con lucida capacità di leggere il suo presente - fa trasparire in diversi punti dell’Enciclica una visione chiara e molto interessante dell’impresa, mettendo a fuoco alcune problematicità della gestione d’impresa che troveranno - in seguito - ampio approfondimento negli interventi dei successori - in particolare nella Centesimus Annus di Giovanni Paolo II e nella Caritas in Veritate di Benedetto XVI, per limitarsi alle Lettere Encicliche - ed echi già nella visione sociale del Concilio Vaticano II. Proviamo a proporre alcuni spunti che riteniamo di particolare interesse, soprattutto se contestualizzati nell’ambito del momento storico in cui Giovanni XXIII interviene: si ricorda, infatti, che il 1961 si colloca in anni di grande crescita dell’economia italiana, europea e mondiale, di apparente dominio incontrastato dei paradigmi economici di origine nordamericana e di contrapposizione tra i modelli - politici ed economici - occidentale e comunista. Un primo passaggio che sottolineiamo si ritrova al n. 67, dove Giovanni XXIII scrive come siano esigenze del bene comune «… evitare ogni forma di sleale concorrenza tra le economie dei diversi paesi; favorire la collaborazione tra le economie nazionali con intese feconde; cooperare allo sviluppo economico delle comunità politiche economicamente meno progredite». Si potrebbe affermare, con un termine coniato solo di recente, che il bene comune è realizzabile mediante un “mercato umanizzato”, che sia - contemporaneamente - efficiente e solidale e, con esso, le istituzioni che vi operano, ossia le imprese: si tratta di un binomio tra economia e socialità la cui attualità, in ambito di governo dell’impresa, assumerà peso in campo internazionale solo dopo almeno un decennio dalla pubblicazione della Mater et Magistra, ma che in essa trova già piena evidenza. Una seconda annotazione importante riguarda il tema della giustizia - che avrà grande risalto anche nella successiva Lettera Enciclica Pacem in Terris, pur coniugato su un diverso campo di applicazione -, qui riferita ai rapporti interni all’impresa; la giustizia disegnata da Giovanni XXIII è, al tempo stesso, economicamente razionale e ragionevolmente caritatevole. Da un lato, infatti, Giovanni XXIII sottolinea la necessità che le relazioni impresa-lavoratore sia regolata dalla giustizia e dall’equità, riferite sia alla condizione soggettiva del lavoratore sia alle condizioni oggettive del lavoro (anche in questo caso, la tassonomia adottata sarà poi esplicitata da Giovanni Paolo II nella Laborem Exercens, ma è ben presente già nel Magistero di Giovanni XXIII); al n. 58, infatti, Giovanni XXIII scrive: «Riteniamo perciò nostro dovere riaffermare ancora una volta che la retribuzione del lavoro, come non può essere interamente abbandonata alle leggi di mercato, cosi non può essere fissata arbitrariamente; va invece determinata secondo giustizia ed equità. Il che esige che ai lavoratori venga corrisposta una retribuzione che loro consenta un tenore di vita veramente umano e di far fronte dignitosamente alle loro responsabilità familiari; ma esige pure che nella determinazione della retribuzione si abbia riguardo al loro effettivo apporto nella produzione e alle condizioni economiche delle imprese; alle esigenze del bene comune delle rispettive comunità politiche, specialmente per quanto riguarda le ripercussioni sull’impiego complessivo delle forze di lavoro dell’intero paese, come pure alle esigenze del bene comune universale e cioè delle comunità internazionali di diversa natura ed ampiezza». Dall’altra parte, l’idea di impresa come «comunità di persone nelle relazioni, nelle funzioni e nella posizione di tutti i suoi soggetti» (n. 78) apre la strada ad imprese non regolate solo da relazioni contrattuali impersonali ed individualistiche, ma ad ambienti permeati di solidarietà e carità (si potrebbe dire, con Benedetto XVI di “gratuità”): si tratta di una visione che abbiamo definito ragionevolmente caritatevole, perché individua uno dei tratti fondamentali delle relazioni economiche, ovverosia che esse non sono mai autoreferenziali e autoesplicative, ma costituiscono una dimensione di relazioni umane più ampie e più profonde. Un terzo elemento importante emerge quando Giovanni XXIII - analizzando la funzione sociale della proprietà privata, la sua legittimità ed i suoi limiti etici - tratta il tema della separazione tra capitale e controllo nelle imprese di grandi dimensioni: fenomeno peculiare della grande impresa moderna (nel modello cosiddetto della “public company”). Al n. 91 dell’Enciclica, Giovanni XXIII sottolinea il problema di garantire che «… gli obiettivi perseguiti dai dirigenti delle grandi aziende, soprattutto da quelle che hanno maggiore incidenza in tutta la vita economica di una comunità politica, non siano in contrasto con le esigenze del bene comune; problemi, come l’esperienza attesta, che si pongono ugualmente tanto se i capitali che alimentano le grandi imprese siano di proprietà di privati cittadini, quanto se essi siano di enti pubblici». Questa questione - percorsa secondo molti approcci dagli studi di corporate governance - costituisce un nodo centrale dell’impresa moderna sotto diversi punti di vista: nella regolamentazione del diritto societario, nelle problematiche di rendicontazione esterna e di trasparenza del mercato e, non ultimo, nella prospettiva etica. Infatti, la progressiva distanza tra proprietà e comando societario rischia di ingenerare pericolosi fenomeni di individualizzazione - facendo venir meno la prospettiva sociale dell’impresa - e di alienazione del soggetto (investitore, lavoratore, dirigente) nelle dinamiche imprenditoriali. Quelli appena sottolineati costituiscono tre temi, tra i tanti emergenti nella Mater et Magistra, che hanno davvero di un sapore profetico che oggi, a 50 anni di distanza e dopo le evoluzioni dell’economia e della stessa Dottrina Sociale della Chiesa, rifulge con particolare splendore.
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Il principio di sussidiarietà riceve da Giovanni XXIII un’attenzione speciale nella sua applicazione in campo economico, riconosciuto come creazione della libera iniziativa dei cittadini, singoli o associati, pur con la doverosa presenza dell’autorità e la sua azione «di orientamento, di stimolo, di coordinamento, di supplenza e di integrazione», come leggiamo nei paragrafi 39 e 40 della “Mater et magistra”. Nel solco della “Rerum novarum” di Leone XIII e della “Quadragesimo anno” di Pio XI, la “Mater et magistra” approfondisce in modo originale il principio di sussidiarietà orizzontale, innovativo contributo di quest’enciclica. La sussidiarietà si dice verticale, secondo una terminologia oramai condivisa sia dal pensiero sociale cattolico che dalla dottrina costituzionale italiana, quando le relazioni si dipanano su un piano gerarchico, suggerendo l’intervento di supplenza temporanea da parte dello Stato nei confronti degli enti pubblici inferiori, nei casi in cui essi non riescano a svolgere efficientemente i proprio compiti. A questo intervento, diciamo così, dall’alto verso il basso, si affianca un moto inverso, dalla periferia al centro, nella recuperata autonomia e importanza riconosciuta agli enti locali. Si parla di sussidiarietà orizzontale quando questo stesso rapporto è stabilito tra la sfera pubblico-statale e quella privata, tra Stato e società civile. Allo stesso modo che per la via verticale, l’intervento dello Stato in senso orizzontale deve essere sempre di promozione e mai d’ingerenza (modalità negativa: non fare) nei confronti dell’attività svolta in prima linea da famiglie, comunità, associazioni di privati e, solo eventualmente, di pronto aiuto (modalità positiva: fare) mai sostitutivo. La “Mater et magistra” spiega mirabilmente questo concetto, anticipando una necessità che solo di recente è stata compresa, vale a dire, con le parole dello stesso Giovanni XXIII, che il mondo economico ha bisogno sia dell’apporto «dei singoli cittadini sia dei poteri pubblici; apporto simultaneo, concordemente realizzato» sempre rispondente alle esigenze del bene comune. L’intuizione di una sussidiarietà orizzontale recupera la concezione di responsabilità della persona, insita in quella di libertà: l’uomo, perché libero, è il primo responsabile del proprio mantenimento e del proprio sviluppo. Oltre che sul ruolo di protagonista nella vita economica e politica dei singoli cittadini, Giovanni XXIII insiste molto sulla realtà dei corpi sociali intermedi, espressioni della propensione dell’uomo a vivere in società, «frutto ed espressione di una tendenza naturale, quasi incontenibile, degli esseri umani». La sussidiarietà orizzontale, nella “Mater et magistra” appare quindi di rilievo vitale non solo nei rapporti tra Stato e singolo, ma anche tra Stato e corpi intermedi. Leggendo questa enciclica 50 anni dopo, possiamo trarre qualche ulteriore riflessione sulla degenerazione dello Stato sociale in Stato assistenziale. Quando Giovanni XXIII scrive che l’esperienza mostra «che dove manca l’iniziativa personale dei singoli vi è tirannide politica; ma vi è pure ristagno dei settori economici» pare suggerire anzitempo che anche lo Stato potrebbe aver bisogno dei cittadini, anche il settore privato può in una certa misura sussidiare il pubblico. L’energia propulsiva dello Stato sussidiario ha la sua ragion d’essere sul piano orizzontale laddove, come detto, riconosce lo spazio e favorisce l’iniziativa del cittadino; ma allo stesso tempo la sfera pubblica ha bisogno di un intervento sussidiario del privato nello svolgimento di quei compiti che lo Stato fatica ad eseguire, perché in realtà non gli competerebbero nemmeno. Si pensi all’educazione, all’assistenza dei malati o degli anziani: realtà che naturalmente trovano una prima soluzione nella sfera privata della famiglia, dell’associazionismo tra genitori o delle comunità locali, ma che col tempo sono state, in modo erroneo, affidate alla gestione esclusivamente statale. Non a tutte le richieste di intervento lo Stato è in grado di rispondere né è giusto che lo faccia: per questo dove, in termini di efficienza e maggior cura della persona, può arrivare l’iniziativa del privato è giusto che questo scenda in campo per sussidiare l’azione dei servizi pubblici, riprendendosi ruoli e competenze che per natura, e non per concessione amministrativa, gli sono propri. Si può pensare alla proposta di una sussidiarietà in qualche modo reciproca, o, meglio biunivoca? Guardando alla “Mater et magistra” con gli occhi di oggi, si può pensare di rispondere che, se l’enciclica non ne accenna esplicitamente, ci ha quantomeno fornito un suggerimento assai puntuale e lungimirante che oggi trova spazio di applicazione.