Divorziati risposati!
Feb 9th, 2014 | Di cc | Categoria: ReligioneRecentemente, nell’ambito della discussione sulla eventuale riammissione ai Sacramenti dei divorziati risposati, da più parti si è fatto appello alla prassi della Chiesa antica, la quale, secondo alcuni, avrebbe abitualmente consentito il ritorno ai sacramenti dei fedeli in tale situazione dopo un periodo penitenziale, secondo la modalità della penitenza pubblica. Si tratta in realtà di una tesi nient’affatto condivisa e già confutata in passato da autorevoli studiosi; come succede non di rado, però, alcune tesi storiografiche che sembravano superate riemergono periodicamente per essere utilizzate come “pezze d’appoggio” in polemiche dei giorni nostri. È stato sottolineato da non pochi commentatori come l’argomento si poggi principalmente sul canone VIII del Concilio di Nicea, dell’anno 325, quindi un testo molto autorevole. Il canone tratta della riammissione dei cosiddetti catharoi (puri), che nella Chiesa antica sono da identificare con i “novaziani”, una setta di tendenza rigorista che si richiamava allo scisma di Novaziano, prete romano che alla metà del secolo terzo aveva rotto la comunione con il Vescovo romano Cornelio facendosi ordinare a sua volta Vescovo, giustificandosi con motivazioni di tipo disciplinare che il nostro canone indirettamente richiama. Novaziano rifiutava la riammissione alla comunione della Chiesa degli apostati e degli adulteri, anche dopo la penitenza pubblica. Dunque, il canone niceno dispone che il “puro” per essere riammesso deve «promettere per iscritto di accettare e seguire gli insegnamenti della Chiesa cattolica e apostolica, cioè di rimanere in comunione sia con chi si è sposato due volte (digamos in greco), sia con chi è venuto meno durante la persecuzione, ma osserva il tempo e le circostanze della penitenza». Secondo l’interpretazione in discussione, la Chiesa antica avrebbe riammesso ai sacramenti i divorziati risposati dopo un tempo di penitenza, una scelta rifiutata dai novazioni rigoristi, ma prassi abituale per tutta la Chiesa di allora, tanto da essere richiamata in un canone del primo concilio ecumenico, una procedura destinata però a sopravvivere solo nella Chiesa orientale. In occidente avrebbero prevalso proprio le tendenze rigoriste condannate dal canone. La prima osservazione da fare è di carattere generale: la coscienza che la Chiesa antica aveva delle nozze era allora in piena evoluzione e la percezione del matrimonio come Sacramento stava maturando lentamente. Le coordinate generali della riflessione muovevano da un lato dalla chiara affermazione del Signore sull’indissolubilità del matrimonio, dall’altro dalla percezione sociale ratificata dal diritto romano, per il quale il divorzio non poneva alcun problema. La posizione di tutti i padri, sia pure con accenti diversi, è indiscutibilmente di difesa e di promozione dell’indissolubilità del matrimonio, pur trattandosi di una dottrina in fase di chiarificazione. Le prime formulazioni davvero sistematiche e inequivocabili che orienteranno verso il riconoscimento della Sacramentalità del matrimonio le troviamo in Agostino, all’inizio del secolo quinto, quasi un secolo dopo Nicea. Già queste ovvie considerazioni dovrebbero bastare per rinunciare a trarre affrettatamente conclusioni per l’oggi dai testi e dalla prassi della Chiesa antica. La seconda osservazione riguarda il senso letterale del testo in questione. Il canone propone due categorie di persone con le quali i “puri” devono accettare di vivere in comunione: chi si è sposato due volte (digamos) e chi è venuto meno durante la persecuzione, cioè ha apostatato, ma ha fatto penitenza. Consideriamo innanzitutto questo secondo caso, su cui non ci sono problemi di interpretazione: le grandi persecuzioni del terzo secolo, culminate con quella di Diocleziano dell’inizio del quarto, erano scoppiate improvvise e si erano protratte però per un tempo relativamente limitato. Tali circostanze mettevano a dura prova i cristiani, e un numero significativo di essi, travolto dagli eventi, aveva apostatato in forma più o meno manifesta. Finita la persecuzione, molti di questi apostati chiedevano di rientrare nella Chiesa. La loro riammissione dopo la penitenza pubblica all’inizio del secolo quarto era prassi condivisa nella Chiesa, ma i gruppi rigoristi, come i novaziani, non avevano mai accettato tale prassi. Ora, ovviamente, la disciplina ecclesiastica prevedeva che gli apostati dovessero recedere dalla loro apostasia, rinnegare pubblicamente gli idoli e passare qualche anno di penitenza per consolidare la propria conversione e dimostrare alla comunità il loro reale ravvedimento. In sostanza, per essere riammessi, i penitenti dovevano rimuovere la causa del loro allontanamento. Il caso nel nostro canone è messo in parallelo da alcuni interpreti con quello di chi si è “sposato due volte”. Se si trattasse di divorziati risposati sottoposti a penitenza (e, come tra poco vedremo, non è affatto chiaro), come si può pensare che venissero riammessi, sia pure dopo il periodo penitenziale, senza aver rimosso la causa dell’allontanamento? Cioè senza rinunciare al secondo matrimonio? La logica del testo, se letto secondo un rigido parallelismo, imporrebbe questa interpretazione. Tuttavia tale conclusione è puramente ipotetica, infatti il testo del canone non parla affatto di un periodo di penitenza previo per i digamoi, ne parla solo a proposito degli apostati; la lettura che assimila i due casi è probabilmente tendenziosa e soprattutto forza il testo: di coloro che sono sposati due volte non si dice affatto che venissero sottoposti alla penitenza pubblica, facevano parte della Chiesa e basta. La Chiesa antica ammetteva forse il divorzio, senza battere ciglio? Una terza osservazione si impone e va fatta intorno al significato del termine greco digamos. Il primo significato del termine è identico all’italiano bigamo: un uomo con due mogli (simultanee). Ma evidentemente vale qui il secondo significato, frequente del resto negli autori cristiani dei primi secoli: uomo convenuto a seconde nozze, una volta terminate le prime. La discussione sulla legittimità delle seconde nozze in effetti si protrae dal secondo al quinto secolo e oltre, ma non riguarda affatto i divorziati risposati: il termine digamos (e digamia), insieme all’opposto termine monogamos (e monogamia) diventano presto i termini tecnici che accompagnano l’annosa polemica sulle seconde nozze dei vedovi. L’importanza della questione deriva evidentemente dal fatto che da un lato le parole del Signore sulla “unica carne” formata dagli sposi sembravano escludere questa possibilità, d’altra parte però la durata media della vita di allora, molto inferiore a quella di oggi, e la giovane età delle ragazze all’atto del matrimonio, comportava la presenza nella comunità di un numero molto significativo di vedovi e soprattutto di vedove in età da marito. Inoltre quest’ultima condizione, su base scritturistica, era tenuta in alta considerazione, tanto che le vedove, com’è noto, costituivano un ordo istituzionale. La Chiesa ha solo lentamente riconosciuto la piena legittimità delle seconde nozze dei vedovi, bisogna per questo attendere almeno la fine del IV secolo; in precedenza venivano concesse ma non certo incoraggiate. I rigoristi invece consideravano i vedovi risposati alla stregua degli adulteri: un “adulterio presentabile”, secondo la definizione di Atenagora, apologeta del secondo secolo che neanche è considerato un rigorista (Supplica, 33,2). Sono numerosi i testi che testimoniano dell’uso del termine digamos o del corrispettivo monogamos per indicare la condizione vedovile nei confronti delle seconde nozze. Un esempio dall’epistolario di Girolamo testimonia ancora a ridosso del quinto secolo della valenza tecnica dei termini, conservati in greco, in riferimento allo stato vedovile: «qui de monogamia sacerdos est, quare viduam hortatur ut digamos sit?» (ep. 52,16). Spesso il significato di tali termini è dato per scontato dall’autore, quindi la lettura rimane esposta a interpretazioni scorrette, ma in alcuni casi il loro uso è davvero indubitabile, ad esempio nelle Costituzioni Apostoliche (in due passi: 3,2,2 e 6.17.1), una collezione canonistica, in cui è definito monogamos colui che non si risposa. Un testimone molto chiaro del significato tecnico di digamos nel terzo secolo è Origene, che parla della condizione della vedova rispetto al secondo matrimonio nel quarto paragrafo della ventesima omelia su Geremia; a proposito di questo testo, bisogna rilevare il diverso atteggiamento degli autori moderni: Pierre Nautin, il grande patrologo che ha curato l’edizione di Sources Chrétiennes delle omelie su Geremia, annota puntualmente che si tratta della questione delle seconde nozze delle vedove (SC 238, pp. 268-269, note 1 e 2); Luciana Mortari, traduttrice italiana della Collana di Studi Patristici, al contrario, afferma che si tratta della questione dei divorziati risposati, adducendo come giustificazione la prassi penitenziale della Chiesa orientale (in realtà: Ortodossa) (Collana di Studi Patristici 123, p. 265, nota 43); infine nel Dizionario di Origene, alla voce “Matrimonio” di Giulia Sfameni Gasparro, tra i maggiori esperti della materia, il testo in questione è di nuovo correttamente collocato nell’ambito della questione del matrimonio delle vedove (p. 269). Un “monumento” alla questione è costituito dal trattato De monogamia di Tertulliano, del suo periodo montanista, che quindi esclude totalmente la possibilità delle seconde nozze per chi è rimasto vedovo. Questa ultima notazione ci aiuta a tornare al significato del canone di Nicea. Infatti Socrate Scolastico, uno storico dell’inizio del quinto secolo sempre ben documentato, che oltretutto manifesta chiare simpatie per i novaziani, asserisce che i novaziani che erano “intorno alla Frigia” non accoglievano i digami (in Storia della Chiesa, 5,22,60), precisamente la questione affrontata dal canone di Nicea. I montanisti (detti anche frigi o catafrigi, dal loro luogo originario) e i novaziani si erano infatti uniti in un unico movimento rigorista, detto appunto dei “puri”, come sono definiti nel canone ottavo del Concilio di Nicea. Quale dunque il senso del canone? I “puri” per rientrare nella Chiesa cattolica dovevano accettare di vivere in comunione con i vedovi e le vedove che si sono risposati (e che non avevano affatto bisogno di penitenza pubblica) e con gli apostati che siano stati riconciliati con la Chiesa dopo l’opportuna penitenza. Digamos, privo di ulteriori specificazioni, è usato come termine tecnico nel senso di vedovi risposati, come è logico che sia in un canone disciplinare. Nulla a che vedere con divorziati risposati. L’equivoco evidentemente è nato dall’idea idea che una presunta prassi tollerante in materia matrimoniale della Chiesa antica si sia conservata nell’attuale prassi della Chiesa Ortodossa: un’ipotesi suggestiva ma tutt’altro che dimostrata, ci sembra. In realtà, come abbiamo visto per i vedovi, nella Chiesa antica la tendenza prevalente riguardo alle nozze era più vicina al rigorismo che a posizioni “tolleranti”. Non sapremmo dire se e come oggi i divorziati risposati possano essere riammessi ai sacramenti; è una questione complessa dove sono in gioco l’indissolubilità del matrimonio e l’accoglienza da offrire a tutti. Non si tratta quindi di una semplice questione disciplinare, come ha ricordato il Papa di recente. Quello che ci sembra chiaro è che se si vogliono apportare argomenti a sostegno della riammissione dei divorziati risposati ai sacramenti, non si può certo fare appello alla prassi della Chiesa antica.