Arte Sacra
Feb 3rd, 2014 | Di cc | Categoria: ReligioneIl confronto tra l’Adorazione dei Magi di Dürer e quella di Leonardo, oggi entrambe nel Museo degli Uffizi di Firenze, mostra in maniera esemplare il complesso e profondo rapporto tra Dürer e gli artisti italiani. L’Adorazione dei Magi venne commissionata a Dürer nel 1504 da Federico il Saggio, Principe Elettore di Sassonia, per la Schlosskirche di Wittenberg. Dürer colloca la scena dell’Adorazione dei Magi in uno spazio complesso, in cui si notano ruderi di architetture murarie e sullo sfondo soldati a cavallo, mentre la scena principale accade sopra una struttura a scala. La composizione e i personaggi impongono il paragone con la complessa opera incompiuta di Leonardo, commissionatagli nel 1481 per la Chiesa di San Donato in Scopeto che, già dal 1420, era stata affidata da Papa Martino V ai Canonici Regolari di Sant’Agostino. Nella Adorazione di Leonardo, Maria con il Bambino è circondata da una piccola folla di gente; in alto a sinistra c’è una complessa architettura: una doppia scalinata e dei grandi pilastri incompiuti; davanti a questi e anche a destra ci sono scene di uomini a cavallo. Per ben comprendere le scelte di Dürer e quelle di Leonardo, che senz’altro lo influenzarono, occorre considerare le fonti comuni che possono averli ispirati. Leonardo e Dürer traggono ispirazione dal Vangelo di Matteo, dai commenti patristici, dalle tradizioni popolari, dalle Sacre rappresentazioni, e l’uno, inoltre, diventa anche fonte di riflessione e composizione per l’altro. Innanzitutto, occorre riflettere sulla collocazione e sulla costruzione degli spazi, a partire dall’Adorazione di Leonardo. Leonardo sicuramente ha inteso fare riferimento a Betlemme, ma non in termini puramente descrittivi; le architetture in costruzione, che egli ha dipinto sullo sfondo, potrebbero essere un’allusione a vicende successive avvenute nel luogo storico della nascita di Gesù; infatti, come riferisce San Gerolamo, l’imperatore Adriano, entro un più vasto progetto di scristianizzazione della Terrasanta, aveva fatto costruire proprio a Betlemme un tempio dedicato ad Adone Tammuz: «nella grotta dove un tempo Cristo vagì bambino era pianto l’amante di Venere» (Epistola 58). Leonardo non rappresenta però una grotta o una capanna, secondo la duplice tradizione di lettura del luogo in cui la Sacra Famiglia trovò ospitalità, -anche se i disegni preparatori del dipinto, almeno nella fase iniziale, riflettono proprio su questi elementi-, ma colloca Maria su un trono di rocce, così come fa anche nella Vergine delle Rocce e nella Sant’Anna, la Vergine e il Bambino, questo perché Maria è la montagna, come un’antica e lunga tradizione pone in evidenza. Nella complessa composizione tutto rimanda al centro, dove le diagonali si incontrano, proprio su Gesù; peraltro la presenza simbolica di una coppia di alberi, dietro al Bambino, crea un percorso diagonale dell’occhio, come ricorda Pedretti. Gli alberi sembrano essere un melo e una palma, cioè il segno del peccato originale dell’uomo e della sua redenzione pasquale. Le scene di battaglia, che Leonardo pone sullo sfondo, sono una esplicitazione del significato del Bambino che i Magi vanno ad adorare. Leonardo ha, infatti, probabilmente riflettuto sul profeta Michea, a cui rimanda il racconto evangelico dell’adorazione dei Magi. Molti in Israele attendevano un Messia guerriero, mentre arriva invece un Messia di pace. La profezia di Michea annuncia la fine di ogni guerra: «dalle loro spade forgeranno vomeri, dalle loro lame, falci » (Mi 4, 3). E questa pace, che coinvolgerà tutta la terra, avverrà dopo il parto della partoriente: «Perciò Dio li metterà in potere altrui fino a quando colei che deve partorire partorirà; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà con i figli di Israele. Egli starà là e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore suo Dio. Abiteranno sicuri perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra e tale sarà la pace» (Mi, 5, 3-5). E proprio la pace annunciano gli Angeli, dopo la nascita di Gesù, secondo la narrazione di Luca: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14). Le scene di battaglia sullo sfondo sono, dunque, allusione alla pace universale portata da Gesù. Nella tavola di Leonardo, i Magi sono facilmente riconoscibili dai doni che portano, in mezzo a una folla di personaggi di non facile identificazione. Secondo Natali, tra di essi ci sarebbero gli stessi Agostiniani committenti; questo omaggio alla Comunità agostiniana viene però interpretato in modo innovativo da Leonardo. Infatti, con la piccola folla eterogenea egli tende a sottolineare che sono molti e diversi coloro che si recano presso Gesù: si tratta dei Magi, ovviamente, e anche del corteo che secondo un’antica tradizione li avrebbe accompagnati, o forse si tratta soprattutto delle genti accorse ad adorare. La profezia di Isaia sottolinea: «Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere» (Is 60, 3). Inoltre, le figure che con fatica sopraggiungono da dietro al trono di roccia, arrampicandosi, sembrano alludere direttamente ai Profeti. Tutti vanno a venerare Gesù, portandogli doni, ma di rimando, dall’insieme della composizione, si comprende che è il Bambino ad essere donato a tutti; infatti la posizione dei personaggi è del tutto insolita rispetto alle composizioni tradizionali, dove la struttura è molto spesso orizzontale e la Sacra Famiglia è posta, solitamente, di tre quarti; qui, invece, al centro ci sono solo Maria e Gesù, e tutti fanno da anello intorno, a sottolineare che Maria è immagine della Chiesa e del tabernacolo, e Gesù è l’Eucaristia. Secondo Natali, l’edificio in costruzione, in alto a sinistra, avrebbe come probabili modelli il Presbiterio di San Miniato al Monte a Firenze e la facciata di San Sebastiano a Mantova. Questa analisi di Natali ci consente di enucleare un’ulteriore ipotesi di lettura. Leonardo ha così voluto esprimere che la nascita di Gesù è già atto liturgico che costruisce la Chiesa, e questo evento accade nel Presbiterio, che è il luogo naturale nel quale si compie la Liturgia Eucaristica ed anche il luogo in cui, nel Medioevo, si svolgevano le Sacre rappresentazioni, ancora dotate di forte significato liturgico. Leonardo, come sempre, raccoglie una lunga e ampia tradizione, riuscendo a reinterpretarne il significato più intimo entro un’iconografia profondamente rinnovata. Quest’opera, nella sua complessità, parla, dunque, del mistero del corpo di Gesù Cristo, adorato dai Magi e da tutte le genti, centro di ogni liturgia, principio generatore della Chiesa come luogo architettonico e come corpo mistico, di cui Maria stessa è simbolo letteralmente pregnante. Dürer, che è memore dell’opera di Leonardo -se non per visione diretta- tramite resoconti o disegni, trasmessi dagli intellettuali che frequentava o anche dalle varie ramificazioni dello stesso Ordine Agostiniano, mostra di aver compreso perfettamente l’innovazione leonardiana, proponendola in una struttura che mantiene un aspetto più tradizionale. Nell’opera di Dürer, infatti, non c’è lo stare dei personaggi come nella tavola di Leonardo, ma il loro andare, come più tradizionalmente accade nelle scene dei Magi; tuttavia viene mantenuto, anzi esaltato, il cuore dell’innovazione leonardiana. Dürer sembra citare Leonardo letteralmente in alcuni particolari, come per esempio gli alberi sulle rovine architettoniche; mentre per altri mantiene solo il segno, come per i cavalieri che, pur presenti in analoga collocazione, diventano un’eco: infatti, non combattono, ma sembrano più tradizionalmente rappresentare il corteo regale che ha raggiunto la sua meta, con riferimento a una lunga tradizione pittorica, in cui spiccano Benozzo Gozzoli e Filippino Lippi. Dürer rappresenta i Magi come sovrani orientali, secondo la tradizione, e si autoritrae nei panni di quello centrale. Anche Leonardo pone il proprio autoritratto nella scena dell’Adorazione: in entrambi, si tratta della precisa consapevolezza del Pittore come testimone presente all’evento narrato. Inoltre, Dürer dedica particolare cura alla descrizione del dono, che egli stesso reca al Re divino: si tratta di un calice di complessa fattura, tipico dell’argenteria norimberghese, sicuramente un’opera che Dürer stesso o forse il padre avevano realizzato. I doni sono descritti con maggiore cura, rispetto a quelli leonardiani, ma entrambi sottolineano la valenza liturgica che essi possiedono: sono calici, appunto. Ma l’aspetto più notevole dell’opera di Dürer è la modalità compositiva con cui esplicita il significato Teologico-Liturgico dell’Epifania leonardiana, enfatizzando l’altezza del luogo in cui avviene la scena centrale, mediante le scale, e ponendo notevolmente più in basso il personaggio a destra. Inoltre, la struttura dell’architettura su cui stanno Gesù e Maria, proprio in virtù della duplice scala, sembra essere la stessa che Leonardo pone in lontananza, e cioè il Presbiterio di San Miniato al Monte. Dürer coglie la fortissima valenza liturgica dell’Adorazione dei Magi di Leonardo, e traduce l’allusione leonardiana in un linguaggio più facilmente intelligibile: il presbiterio in lontananza diventa l’ambiente principale, la scena viene collocata nel proprio luogo liturgico, sul Presbiterio, in alto, dove tutti desiderano salire. Dürer è entrato nello spazio dipinto da Leonardo, lo ha percorso, si è posto tra gli astanti e, come protagonista, lo ha rappresentato, da un altro punto di vista, in una prospettiva ruotata di novanta gradi, salendo le scale dell’edificio che Leonardo pone sullo sfondo, quasi traducendo un altro passaggio del Profeta Michea: «Venite, saliamo al monte del Signore» (Mi, 4, 2).
Analizzando il numero 167 della Evangelii Gaudium, si scoprono tesori immensi che emergono dalla costante relazione con l’immenso patrimonio culturale della chiesa e con la Tradizione. Infatti, leggiamo «Se, come afferma Sant’Agostino, noi non amiamo se non ciò che è bello, il Figlio fatto uomo, rivelazione della infinita bellezza, è sommamente amabile, e ci attrae a sé con legami d’amore. Dunque si rende necessario che la formazione nella via pulchritudinis sia inserita nella trasmissione della fede». Questa affermazione, che apparentemente sembra essere innovativa, è di fatto il recupero sincero di una tradizione millenaria nella Chiesa. Infatti, se osserviamo attentamente tutta la storia dell’arte cristiana, possiamo verificarlo anche solo con un rapido sguardo: l’arte è lo strumento imprescindibile della evangelizzazione. San Giovanni Damasceno, affermava che la pittura fosse il vero testimone credibile per portare Cristo ai pagani. Il testo prosegue ancora ribadendo il legame millenario tra arte e fede, affermando: «È auspicabile che ogni Chiesa particolare promuova l’uso delle arti nella sua opera evangelizzatrice, in continuità con la ricchezza del passato, ma anche nella vastità delle sue molteplici espressioni attuali, al fine di trasmettere la fede in un nuovo “linguaggio parabolico”». Questo è il punto nodale della proposta operativa di Papa Francesco per la evangelizzazione: egli incoraggia l’uso dell’arte per l’evangelizzazione. Ci permettiamo di dire che non tratta solo della “nuova” evangelizzazione, ma di tutta l’evangelizzazione in quanto tale, perché l’arte, e la pittura in modo particolare - come innumerevoli volte abbiamo sottolineato citando Padri della Chiesa, Dottori della chiesa, grandi trattati, Documenti del Magistero-, ha una efficacia impareggiabile nel formare e nell’educare al bene, al vero e al bello. Certamente l’arte deve trasmettere la fede in quel modo particolare che Cristo stesso ci ha insegnato, ovvero in un “linguaggio parabolico”, che significa esplicitamente figurativo e narrativo, cioè in grado di trattenere tutto il senso originario del testo evangelico e nel contempo di vivificarlo attraverso il segno ed il colore. Forse qualcuno potrebbe dire che il testo del numero 167 sia in questo punto non del tutto chiaro o addirittura ambiguo, perché apparentemente potrebbe sembrare che apra a una sorta di relativismo estetico laddove afferma che si debbano prendere forme in continuità con il passato “ma anche nella vastità delle sue molteplici espressioni attuali”. Di fatto questo modo di esporre la teoria dell’arte sacra della Chiesa, è ben presente anche nei testi del Vaticano II: una apertura immaginifica del presente come luogo di riflessione e di elaborazione della forma artistica. Del resto questo è evidente, se non si vuole che l’arte muoia e si vuole invece che sia sempre vivificata, è necessario che abbia avere appunto una sua vitalità, debba entrare in contatto con ambienti diversi, incontrare nuove forme. Questo non significa, né per il Vaticano II, né nella Evangelii Gaudium, che l’arte cristiana debba farsi colonizzare da idee non consone, non adeguate o addirittura erronee, come qualche volta è accaduto per difetto o per superficialità teoretica. Infatti, nel testo del numero 167 troneggia un monito ed un esplicito ordine di controllo su ogni cosa, richiamato dalla nota 130 che rimanda al testo del numero 6 del Decreto Conciliare sui mezzi di comunicazione sociale Inter Mirifica, intitolato “Arte e morale” che recita: «La seconda questione riguarda le relazioni tra i diritti dell’arte - come si suol dire - e le norme della legge morale. Poiché il moltiplicarsi di controversie su questo argomento non di rado trae origine da dottrine erronee in materia di etica e di estetica, il Concilio proclama che il primato dell’ordine morale oggettivo deve essere rispettato assolutamente da tutti. Questo ordine è il solo a superare e armonizzare tutte le diverse forme dell’attività umana, per quanto nobili esse siano, non eccettuata quella dell’arte. Solo l’ordine morale, infatti, investe l’uomo nella totalità del suo essere creatura di Dio dotata di intelligenza e chiamata ad un fine soprannaturale; e lo stesso ordine morale, se integralmente e fedelmente osservato, porta l’uomo a raggiungere la perfezione e la pienezza della felicità». Questo riferimento così esplicito dà significato all’intero testo, che va letto in una direzione che entra nell’organismo complesso della produttività artistica. La Evangelii Gaudium, senza contraddizione ne’ ambiguità, afferma che l’artista deve poter guardare a tutta la complessa realtà che lo circonda, prenderne spunto, attualizzare sempre il linguaggio parabolico dell’arte sacra, ma senza introdurre errori, senza riferirsi a teorie etiche ed estetiche erronee, poiché non esiste un diritto proprio dell’arte che vinca sul bene, sulla morale, esiste in realtà il primato dell’ordine morale oggettivo che deve essere rispettato da tutti. E questo non è solo un consiglio; il Concilio Vaticano II con il decreto Inter Mirifica pone autorevolmente una questione che negli ultimi 50 anni è stata spesso aggirata o ignorata. Del resto, le parole stesse di Papa Francesco offrono una chiara chiave di lettura; ascoltiamo per esempio quel che ha detto pochi giorni fa nell’udienza fatta ai dipendenti RAI in occasione del novantesimo anniversario dell’inizio delle trasmissioni radiofoniche e il sessantesimo di quelle televisive, in cui porta in primo piano proprio il senso della relazione che c’è tra arte e morale, proposto dalla Inter Mirifica, riconducendo l’arte ad una attività formativa: «A tutti voi che siete qui presenti, e a coloro che per diversi motivi non hanno potuto prendere parte a questo nostro incontro, ricordo che la vostra professione, oltre che informativa, è formativa, è un servizio pubblico, cioè un servizio al bene comune. Un servizio alla verità, un servizio alla bontà e un servizio alla bellezza».