Giovanni XXIII

Nov 20th, 2013 | Di cc | Categoria: Religione

 

L’11 ottobre del 1962 ebbe inizio il Concilio Vaticano II voluto da Papa Giovanni XXIII. Sono passati 51 anni. In tutto il mondo si sono svolte iniziative per celebrare la ricorrenza: convegni di studio, assemblee, incontri, saggi, libri, numeri unici monografici di periodici con interventi di esperti vari, filosofi, teologi, storici, sociologi. Un interesse mediatico vastissimo. E in tutte le informazioni, grandi e piccole, anche in quelle di fonte strettamente laica, si riscontra un generale accordo nel riconoscere l’importanza del Concilio Vaticano II: un evento straordinario, epocale, il primo Concilio nella storia della Chiesa con carattere di universalità come non era mai accaduto. Per il mondo cattolico, poi, l’evento ha naturalmente altissimi risvolti di tipo spirituale, tanto che il Sinodo Straordinario del Vescovi del 1985 lo definì: “massima grazia del secolo XX”.

La teologia della missione nel Concilio Vaticano Il

Il Concilio Ecumenico Vaticano II avvia un ripensamento radicale della fondazione teologica  della missione. Il termine e il concetto di missione era stato di volta in volta espresso come attività missionaria della Chiesa, come  plantatio Ecclesiae, come attività della Chiesa dovunque ci fosse bisogno o anche solo l’attività nei territori dipendenti dalla Congregazione de Propaganda Fide. Il decreto Ad Gentes recupera la visione della missione sul piano di una ontologia soprannaturale. La missione della Chiesa viene fondata nelle missioni trinitarie: nel Padre come amore fontale che invia il Figlio, suo Verbo, e lo Spirito Santo. La riflessione sulla missione è teologica per il suo contenuto e per lo specifico con cui, soprattutto i Padri Greci, distinguevano la teologia  (Dio in sé stesso Trino e Uno e la creazione) dalla economia  (soprattutto l’Incarnazione). La Chiesa è il realizzarsi del progetto di Dio di  salvare tutti gli uomini associandoli alla sua vita e alla sua gloria. La vita trinitaria è contemporaneamente la sorgente della missione della Chiesa e il suo compimento sull’orizzonte escatologico. L’inizio del decreto Ad Gentes scandisce: “Ad gentes divinitus missa…” dove il divinitus non dice solo un mandato divino ma rimanda a una sorgente che è la stessa vita trinitaria; non è solo un Dio che manda ma un Dio che entra per primo nel cuore dell’umanità per salvarla.

Natura della Chiesa - Natura della Missione

C’è un intimo rapporto tra la natura della Chiesa e la missione della Chiesa. L’intimo rapporto è contenuto nell’attribuzione alla Chiesa della categoria di mistero e di sacramento che rimandano all’orizzonte biblico e a quello della Tradizione. La Chiesa è mistero in relazione al mistero di Cristo e al mistero della Santa Trinità, sua origine e, di conseguenza, sua missione. La Chiesa è mistero perché è fondata nel mistero trinitario; è società perché è radicata nella storia. La Chiesa è sacramento perché è risultato della redenzione operata da Cristo ed è chiamata di conseguenza ad attualizzarla nella storia degli uomini in forza dell’Incarnazione del Verbo. Natura e missione della Chiesa non possono essere realtà a sé stanti ma si esigono e si esprimono a vicenda: “La Chiesa peregrinante è per natura sua missionaria in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre” (AG 2). La Chiesa è popolo di Dio in cammino verso il compimento. Questo cammino è storico ed è salvifico nello stesso tempo perché il tempo dell’uomo è proiettato verso l’eternità di Dio.

Il vocabolario della missione nel Concilio Vaticano II

Il vocabolario della missione del Concilio Vaticano II colloca la missione della Chiesa all’interno delle missioni trinitarie sottolineando l’iniziativa del Padre, sorgente di Amore, di Cristo missionario del Padre, dello Spirito Santo che rende missionaria la Chiesa. Considerando poi la Chiesa e l’umanità nella loro storicità come destinatari delle missioni trinitarie, ne consegue che la Trinità è il permanente modello di riferimento della missione della Chiesa, il cui fine è di partecipare a tutti gli uomini la vita trinitaria da cui deriva la sua stessa missione. «La missione non si limita a suscitare la conversione e la fede, ma sorregge anche i passi successivi che conducono al battesimo, alla vita della Chiesa e alla testimonianza nel mondo. La missione vuole avviare, far crescere e sostenere quel cammino di fede che dal suo primo inizio porta alla piena maturità di Cristo». Nel decreto Ad Gentes, l’espressione più usata non è missione ma attività missionaria, come sinonimo di missioni e dell’insieme dei compiti della Chiesa (AG 9). D’altronde lo stesso sottotitolo del decreto conciliare sull’attività missionaria della Chiesa, esprime con chiarezza l’intenzione dei padri conciliari. Questa missione, però, continua anche dopo la fondazione della Chiesa negli ambienti di incredulità e di ignoranza del mistero di Cristo e nelle Chiese di antica data, dove «la Chiesa è in fase di regresso e di debolezza» (AG 19). Troviamo quindi nel decreto una terminologia che indica tutta la missione che la Chiesa ha ricevuto da Cristo: missio Ecclesiae e, insieme, tutta l’attività missionaria della Chiesa rivolta alle genti, cioè ai gruppi non cristiani che ancora non sono stati raggiunti dall’annuncio del Vangelo e dove la Chiesa non si esprime ancora in pienezza: activitas missionalis.

A ridosso della ricorrenza del cinquantesimo anniversario dalla pubblicazione dell’enciclica Pacem in Terris del Beato Giovanni XXIII si sono svolte a Roma - organizzate dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace - tre giornate celebrative che hanno richiamato un gran numero di studiosi, osservatori ed esperti da ogni parte del mondo. Molti i motivi d’interesse e le occasioni di riflessione, a partire dall’udienza che Papa Francesco in persona ha voluto concedere ai partecipanti alla manifestazione, oltre trecento. Se è vero infatti che la pace è l’anelito profondo presente nel cuore di ogni persona, è pure vero che forse mai come oggi il termine è stato abusato e utilizzato a sproposito per gli scopi più impensabili. Tra chi detiene responsabilità di governo strategiche nelle aree più delicate del pianeta, poi, chi parla superficialmente di pace spesso non la cerca realmente, mentre altri ancora, altrettanto spesso, facendosi scudo del presteso della pace, cercano solo la massimizzazione del proprio profitto personale. Per questo, se è un fatto storico innegabile che “i semi di pace gettati dal Beato Giovanni XXIII hanno portato frutti”, resta comunque il dato che “nonostante siano caduti muri e barriere, il mondo continua ad avere bisogno di pace e il richiamo della Pacem in Terris rimane fortemente attuale”. Papa Francesco si  è chiesto quindi quale sia il fondamento autentico della costruzione della pace: “La Pacem in Terris  lo vuole ricordare a tutti: esso consiste nell’origine divina dell’uomo, della società e dell’autorità stessa, che impegna i singoli, le famiglie, i vari gruppi sociali e gli Stati a vivere rapporti di giustizia e solidarietà. E’ compito di tutti gli uomini costruire la pace, sull’esempio di Gesù Cristo, attraverso queste due strade: promuovere e praticare la giustizia, con verità e amore; contribuire, ognuno secondo le sue possibilità, allo sviluppo umano integrale, secondo la logica della solidarietà”. Al centro di ogni azione pubblica e sociale dovrebbe trovarsi allora il primato del valore della persona e la sua inalienabile dignità, “da promuovere, rispettare e tutelare sempre”. Oggi come ieri infatti, non è la Chiesa a dare indicazioni concrete su temi che, per la loro complessità, politica e civile, spettano piuttosto alle Autorità temporali, tuttavia resta urgente e anzi imprescindibile il suo compito di educare, istruire e formare la persona umana nella sua integralità, sviluppando soprattutto l’attitudine alla promozione delle virtù, qualcosa che le odierne res novae, quali “l’emergenza educativa e l’influsso dei mezzi di comunicazione di massa sulle coscienze” rende sempre più impellente. Il Pontefice ha quindi concluso il suo intervenendo descrivendo “la inumana crisi economica mondiale” come un “un sintomo grave della mancanza di rispetto per l’uomo e per la verità”, riferendosi a uno dei fondamenti cardine della Dottrina sociale - ripreso da ultimo anche nella Caritas in Veritate - secondo cui le scelte economiche non sono mai semplicemente delle opzioni tecniche interscambiabili ma implicano un giudizio di valore esigente sulla persona e l’ordine sociale, riflesso della Divina Creazione sulla terra. A seguire, ospitati nell’Aula Nuova del Sinodo della Città del Vaticano, i partecipanti si sono confrontati sui singoli capitoli dell’enciclica rilevandone - così il Presidente del Pontificio Consiglio organizzatore in apertura, il Card. Peter K. A. Turkson - lo straordinario apprezzamento, e il fascino, che il testo continua ad esercitare su credenti e non credenti a ogni latitudine del globo: il suo messaggio di pace universale e di solidarietà tra le Nazioni ancora oggi riesce ad arrivare, e a toccare, le intelligenze più diverse per la sua esigente radicalità e la capacità persuasiva. Tuttavia, se allora erano alte le aspettative sugli organismi internazionali di mediazione delle crisi che nascevano in quegli anni (su tutti le Nazioni Unite) oggi i numerosi focolai di guerra - che in alcune aree rischiano di provocare un effetto-domino su scala globale - rendono gli osservatori e gli analisti tendenzialmente meno ottimisti sul futuro del mondo. L’enciclica, però, non per questo perde di valore: la sottolineatura della centralità della persona umana (secondo accenti che talora paiono anticipare persino l’odierna ‘questione antropologica’) e il primato del diritto naturale a cui Giovanni XXIII spesso rimanda per la risoluzione delle questioni più impegnative restano anzi vere e proprie bussole d’orientamento anche oggi. Di particolare attualità in quest’ambito appare la questione della libertà religiosa che é stata affrontata in diversi interventi come una delle chiavi per la pace di oggi (parafrasando uno dei recenti messaggi di Benedetto XVI per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace: “Libertà religiosa, via per la pace”). Notevolissimo per contenuti e profondità é stato ad esempio l’intervento della Prof.ssa Fadia Kiwan, Direttore dell’istituto di scienze politiche presso l’Università Saint-Joseph di Beirut, in Libano: la Studiosa ha ripercorso dettagliatamente il declino progressivo del concetto di tolleranza nell’ultimo secolo nella gran parte degli stati del Maghreb e del Medio Oriente legandolo al crollo rovinoso dell’Impero Ottomano durante la Prima Guerra Mondiale. E’ allora che il tradizionale multiconfessionalismo del Califfato - certamente debole e persino discriminatorio verso le minoranze non appartenenti alla Umma ma almeno garantito istituzionalmente - subisce un colpo mortale per lasciare il posto a un aggressivo panarabismo islamista che tenta di fondere inseparabilmente identità etnica e fede coranica: nascono infatti a breve distanza l’una dall’altra una serie di Costituzioni, solo apparentemente ‘moderne’, in cui l’ispirazione islamica non compare più quale mera radice spirituale ma come vera e propria fonte del diritto e delle leggi. Poco più tardi, con il processo di decolonizzazione, a questa esplosiva costruzione identitaria si aggiungerà un terzo elemento ideologico: il nazionalismo. Paesi che erano arrivati alla modernità con una storia di pluralismo etnico e religioso di rilievo subiscono inaspettatamente un’involuzione radicale finendo progressivamente ostaggio di frange estremiste e fondamentaliste: a livello popolare si diffonde così l’idea (storicamente falsa e priva di ogni fondamento) che il vero buon egiziano, ad esempio, o il buon tunisino, non possa che essere islamico. Gli altri, cristiani o meno, vengono quindi visti come cittadini di seconda classe o comunque di non pari dignità sociale, se non come veri e propri traditori dello Stato. Dopo l’11 settembre 2001, poi, la situazione non fa che aggravarsi: la mitizzazione da più parti di Obama bin Laden (1957-2011), diffonde, soprattutto a livello giovanile, oltre a un revanscismo culturale istintivo verso l’altro, l’idea di un vero e proprio scontro di civiltà in atto che vede le sempre più sofferenti comunità autoctone cristiane (presenti in loco da secoli prima che arrivasse la predicazione di Maometto) come la longa manus dell’Occidente imperialista, colonizzatore e guerrafondaio e per questo alla stregua di corpi estranei da punire. Falso anche questo ovviamente, ma ormai, semplicemente, la rabbia delle piazze mediorientali (colpite nel frattempo pure da una grave crisi economica) e aizzata da una propaganda quotidiana mirata e a dir poco martellante, è troppo forte per essere limitata o contenuta in qualche modo: la situazione attuale è sotto gli occhi di tutti. Si tratta di una lettura articolata e non conformista, come si vede, coraggiosa e assolutamente poco nota dalle nostre parti: per la Kiwan il giudizio storico sull’impero ottomano nel suo complesso è tendenzialmente positivo mentre è l’evoluzione politico-sociale più recente degli Stati nazionali dell’area a destare preoccupazione. Sotto questo profilo, qualora non lo si fosse compreso, la valutazione dei regimi semi-dittatoriali di Mubarak in Egitto e Assad in Siria appare di gran lunga meno preoccupante rispetto a un eventuale Egitto a guida ‘Fratelli Musulmani’ (pure democraticamente eletti) o di una Siria addirittura a guida wahhabita. In ogni caso, le controverse rivolte degli ultimi tre anni (segnate anche, non va dimenticato, da una guerra civile tutta interna al mondo islamico per la conquista del potere tra sunniti e sciiti), oltre al caos sociale, per ora paiono avere portato le minoranze religiose dell’area (e, in primis, quella cristiana) verso posizioni di maggiore sudditanza, e a volte di emarginazione esplicita, rispetto a quelle che detenevano precedentemente. Di analogo tenore la relazione del Procuratore Patriarcale Maronita presso la Santa Sede,  Mons. François Eid, dell’Ordine Maronita Mariano, che ha letto un accorato messaggio del Consiglio dei Patriarchi Cattolici d’Oriente che lamentano con toni forti la vera e propria tragedia umanitaria, oltre che religiosa, di cui sono testimoni in questi mesi in Medio Oriente, a partire dall’Iraq. Numerosi gli episodi di discriminazione e violenze riportati: dagli attentati alle chiese e alle scuole alle persecuzioni delle famiglie, con il risultato che di fatto oggi i cristiani dell’area - che resta pur sempre la sola terra attraversata dal Signore nella sua vita pubblica - sono cittadini ‘meno cittadini’ degli altri, con meno diritti e meno difese. Tutta la Regione appare in preda a una spirale incrociata e apparentemente incomprensibile di vendette, attentati e agguati (fomentati anche da gruppi stranieri provenienti dalla penisola arabica) che molto spesso vedono soccombere proprio le persone più innocenti. Il paradosso è che tutto questo accade in luoghi che per secoli erano stati laboratori di pluralismo e confronto: nota era, a tal proposito, l’ammirazione che il Beato Giovanni Paolo II nutriva per il Libano quale modello di Paese mediorientale fedele alle proprie radici eppure libero e moderno, un laboratorio sociale riuscito di convivenza e tolleranza sostanzialmente, oltre che formalmente, dalla struttura statuale democratica. Oggi, purtroppo, tutto questo appare sempre più come un sogno di un’epoca remota ormai dimenticata dalla storia. Nonostante le sofferenze, però, ha concluso Eid, i cristiani non vengono meno al patto di cittadinanza: le loro istituzioni educative (Scuole ed Università), ricercate ed ammirate anche dai non cristiani, continuano a svolgere pazientemente il loro lavoro di educazione ed alta formazione secondo una logica prettamente evangelica che vede il prossimo come un fratello in Cristo mentre la Chiesa, pur tra mille difficoltà, continua ad operare come soggetto attivo di mediazione e di riconciliazione sociale nelle crisi. A ulteriore riprova dell’emergenza in corso, il tema è stato poi ripreso anche in una tavola rotonda successiva in cui é intervenuto l’ex Ministro pakistano Paul Bhatti, fratello del compianto Shahbaz (1968-2011), che ha descritto la situazione attuale nel suo Paese - appartenente peraltro a tutt’altra area geografica - come analoga, sotto molti aspetti, a quanto avviene quotidianamente in Medio Oriente, con l’aggravante della presenza di una legge apposita (la cosiddetta, e tristemente nota, “legge sulla blasfemia”, per cui Asia Bibi è ancora in carcere) che di fatto è uno strumento di controllo e repressione del dissenso, non solo religioso, ma anche politico e sociale nelle mani di frange estremiste e radicali. Il risultato - complice anche la permanente debolezza dell’esecutivo e delle forze di sicurezza - è che delle radici genuine dello Stato del Pakistan, che era nato nel 1947 staccandosi dall’India su basi squisitamente laiche, attualmente è rimasto poco o nulla e l’ideologia del fanatismo vince soprattutto grazie all’analfabetismo di massa che dilaga nel Paese (con punte del 70% in alcune aree) e all’indottrinamento mirato di alcune madrase (finanziate dall’Estero) verso migliaia di ragazzi poveri che vivono in strada e sono per questo più esposti ai gruppi estremisti e ai nemici veri della pace: nella tormentata Repubblica dell’Asia meridionale, purtroppo, la strada per la riconciliazione, nonostante il sacrificio di Bhatti e Salman Taseer (1946-2011) pare ancora molto lunga.

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