Il nono e il decimo comandamento del Decalogo

Nov 7th, 2013 | Di cc | Categoria: Religione

 

 

 

Questi due comandamenti aiutano a vivere la santa purezza (il nono) e il distacco dai beni

materiali (il decimo) nei pensieri e nei desideri.

«Non desiderare la moglie del tuo prossimo. Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo

campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose

che sono del tuo prossimo» (Dt 5, 21)..

«Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore»

(Mt 5, 26).

1. I peccati interni

Questi due comandamenti si riferiscono agli atti interni corrispondenti ai peccati contro il sesto e

il settimo comandamento, che la tradizione morale classifica fra i cosiddetti peccati interni.

Dispongono a vivere in modo positivo la purezza (il nono) e il distacco dai beni materiali (il

decimo) nei pensieri e nei desideri, secondo le parole del Signore: «Beati i puri di cuore, perché

vedranno Dio» e «Beati i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli» (Mt 5, 3.8).

La prima questione alla quale si dovrebbe dare risposta è se ha senso parlare di peccati interni. In

altre parole, perché si qualificano come negativi atti dell’intelletto e della volontà che non

portano ad atti esterni cattivi?

La domanda non è superflua, perché fra i peccati enumerati nel Nuovo Testamento ci sono

soprattutto atti esterni (adulterio, fornicazione, omicidi, idolatria, stregonerie, liti, ira, ecc.) ma

vengono indicati anche come peccati alcuni atti interni (invidia, concupiscenza, avarizia) 1.

Gesù stesso spiega che è dal cuore dell’uomo che provengono «i propositi malvagi, gli omicidi,

gli adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie» (Mt 15, 19).

Nell’ambito della castità insegna che «chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già

commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5, 28). Questi testi danno un’importante

indicazione per la morale, perché fanno capire come l’origine delle azioni dell’uomo, e quindi

della bontà o della malvagità di una persona, sta nei desideri del cuore, in ciò che la persona

“vuole” e sceglie. La malvagità dell’omicidio, dell’adulterio, del furto non sta soltanto nella

fisicità dell’azione, o nelle sue conseguenze (che pure sono importanti), ma soprattutto nel cuore

dell’omicida, dell’adultero, del ladro, che, concepita una certa azione cattiva, la vuole: decide di

seguire una direzione contraria all’amore del prossimo, e quindi anche all’amore a Dio.

Lo volontà si dirige sempre verso un bene, ma talvolta si tratta di un bene apparente, qualcosa

che non è ordinabile al bene della persona nel suo insieme. Il ladro vuole qualcosa che considera

un bene, ma il fatto che quell’oggetto appartenga a un’altra persona rende impossibile che la

scelta di prenderlo per sé si possa ordinare al suo bene come persona o - che è lo stesso – al fine

della sua vita. In questo senso, non è necessario che ci sia l’atto esteriore per qualificare la

volontà in modo positivo o negativo. Chi decide di rubare, anche se poi non può farlo per un

imprevisto, ha agito male. Ha compiuto un atto interno volontario contro la giustizia.

La bontà e la malvagità della persona risiedono nella sua volontà, e dunque, a stretto rigore, si

dovrebbero usare queste categorie nel riferirsi ai desideri (voluti, accettati), e non ai pensieri.

Quando parliamo dell’intelletto utilizziamo altre categorie, come vero e falso. Quando il nono

comandamento proibisce i “pensieri impuri” non si sta riferendo alle immagini, o al pensiero in

sé, ma al movimento della volontà che accetta il diletto disordinato che una certa immagine

(interna o esterna) gli produce 2.

I peccati interni si possono dividere in:

2

- “cattivi pensieri” (compiacenza amorosa): sono la rappresentazione immaginaria di un atto

peccaminoso senza l’intenzione di compierlo. È peccato mortale se si tratta di materia grave, se

la si cerca o se si consente di dilettarsi in essa;

- cattivo desiderio (desiderium): desiderio interiore e generico di un’azione peccaminosa della

quale la persona si compiace. Non si ha esattamente l’intenzione di compierla (cosa che richiede

sempre una volontà efficace), anche se in non pochi casi la si farebbe se non esistessero alcuni

motivi che frenano la persona (come le conseguenze dell’azione, la difficoltà di compierla, ecc.);

- il godimento peccaminoso: è la compiacenza deliberata in un’azione cattiva già compiuta da sé

o da altri. Rinnova il peccato nell’anima.

I peccati interni, in se stessi, di solito hanno una gravità minore dei corrispondenti peccati

esterni, perché l’atto esterno manifesta in genere una volontarietà più piena. Tuttavia, in realtà,

sono molto pericolosi per chi cerca un rapporto di amicizia con Dio, in quanto:

- si commettono più facilmente, in quanto basta il consenso della volontà; e le tentazioni possono

essere più frequenti;

- si presta loro un’attenzione minore, perché, a volte per ignoranza e a volte per una certa

complicità con le passioni, non si riconoscono come peccati, perlomeno veniali se il consenso è

stato imperfetto.

I peccati interni possono deformare la coscienza, per esempio, quando si ammette il peccato

veniale interno in modo abituale o con una certa frequenza, pur volendo evitare il peccato

mortale. Questa deformazione può dar luogo a manifestazioni di irritabilità, a mancanze di carità,

a spirito critico, a rassegnarsi ad avere frequenti tentazioni senza lottare decisamente contro di

esse, ecc. 3; in alcuni casi può indurre anche a non voler riconoscere i peccati interni, coprendoli

con ragionamenti irragionevoli, che finiscono col confondere sempre più la coscienza; di

conseguenza, cresce l’amor proprio, nascono inquietudini, diventa più costosa l’umiltà e la

sincera contrizione e si può finire in uno stato di tiepidezza spirituale. Nella lotta contro i peccati

interni è molto importante non cadere nello scrupolo 4.

Per lottare contro i peccati interni ci aiutano:

- la frequenza dei sacramenti, che ci danno, o ci aumentano la grazia, e guariscono le nostre

miserie;

- l’orazione, la mortificazione e il lavoro, nella ricerca sincera di Dio;

- l’umiltà – che ci permette di riconoscere le nostre miserie senza farci scoraggiare davanti ai

nostri errori – e la fiducia in Dio nella consapevolezza che è sempre disposto a perdonarci;

- l’esercizio della sincerità con Dio, con noi stessi e nella direzione spirituale, curando con

diligenza l’esame di coscienza.

2. La purificazione del cuore

Il nono e il decimo comandamento riguardano i meccanismi interiori che inducono ai peccati

contro la castità e la giustizia e più in generale ad ogni peccato 5. In senso positivo invitano ad

agire con retta intenzione, con un cuore puro. Sono molto importanti perché non si limitano a

considerare la esteriorità delle azioni, ma anche la radice dalla quale nascono.

Queste dinamiche interne sono fondamentali nella morale cristiana. Anche gli effetti dei doni

dello Spirito Santo e delle virtù infuse dipendono dalle disposizioni della persona. Per questo

hanno particolare importanza le virtù morali, che sono propriamente disposizioni stabili della

volontà e degli altri appetiti ad operare il bene. Tenendo presenti questi elementi si evita la

visione riduttiva della morale come lotta per evitare i peccati, scoprendo invece il grande

3

panorama positivo di impegno per crescere nelle virtù (per purificare il cuore) che ha l’esistenza

dell’uomo, e in particolare quella del cristiano.

Questi due comandamenti si riferiscono specificamente ai peccati interni contro le virtù della

castità e della giustizia, che sono ben rispecchiati nel testo della Sacra Scrittura in cui si parla di

«tre tipi di smodato desiderio o concupiscenza: la concupiscenza della carne, la concupiscenza

degli occhi e la superbia della vita (1 Gv 2, 16)» (Catechismo, 2514). Il nono comandamento

riguarda il dominio della concupiscenza della carne; il decimo riguarda la concupiscenza del

bene altrui. In altre parole, proibiscono di lasciarsi trascinare da queste concupiscenze in modo

cosciente e volontario.

Queste tendenze disordinate, o concupiscenze, consistono nella «opposizione della “carne” allo

“spirito”. È conseguenza della disobbedienza del primo peccato» (Catechismo, 2515). In seguito

al peccato originale nessuno è esente dalla concupiscenza, ad eccezione di Nostro Signore Gesù

Cristo e della Vergine Santissima.

Anche se la concupiscenza in se stessa non è peccato, inclina al peccato e lo genera quando non è

sottomessa alla ragione illuminata dalla fede, con l’aiuto della grazia. Se si dimentica che esiste

la concupiscenza, si può pensare che tutte le tendenze che si provano “siano naturali” e che non

ci sia alcun male a lasciarsi portare da esse. Molti capiscono che ciò è falso quando considerano

ciò che succede con l’impulso alla violenza. Riconoscono che non ci si deve lasciar portare da

tale impulso, ma che occorre dominarlo perché non è naturale. Tuttavia, quando si tratta della

purezza, gli stessi non riconoscono nulla di simile e dicono che non c’è niente di male nel

lasciarsi portare dallo stimolo “naturale”. Il nono comandamento ci aiuta a capire che le cose non

stanno così, perché la concupiscenza ha distorto la natura, e ciò che si prova come naturale è,

spesso, conseguenza del peccato e quindi è necessario dominarlo. Lo stesso si potrebbe dire del

desiderio smodato di ricchezze, o avidità, al quale si riferisce il decimo comandamento.

È importante conoscere il disordine causato in noi dal peccato originale e dai nostri peccati

personali; tale consapevolezza:

- ci sprona a pregare: solo Dio ci perdona il peccato originale, che ha dato origine alla

concupiscenza; e solo col suo aiuto riusciremo a vincerla; la grazia di Dio guarisce la nostra

natura dalle ferite del peccato (oltre ad elevarla all’ordine soprannaturale);

- ci insegna ad amare tutto il creato perché è uscito buono dalle mani di Dio; sono i nostri

desideri disordinati che ci inducono a fare cattivo uso dei beni creati.

3. La lotta per la purezza

La purezza di cuore significa avere un modo santo di sentire. Con l’aiuto di Dio e l’impegno

personale si arriva ad essere più “puri di cuore” : avere limpidezza nei pensieri e nei desideri.

Per ciò che si riferisce al nono comandamento, il cristiano ottiene la santa purezza con la grazia

di Dio e attraverso la virtù e il dono della castità, la purezza di intenzione, la purezza dello

sguardo e l’orazione 6.

La purezza dello sguardo non consiste soltanto nell’evitare di guardare immagini sconvenienti,

ma esige una purificazione nell’uso dei nostri sensi esterni, che ci induca a guardare il mondo e

le altre persone con una visione soprannaturale. Si tratta di una lotta positiva che permette

all’uomo di scoprire l’autentica bellezza di tutto il creato, e in modo particolare la bellezza delle

creature plasmate a immagine e somiglianza di Dio 7.

«La purezza esige il pudore. Esso è una parte integrante della temperanza. Il pudore preserva

l’intimità della persona. Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto. È

ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza. Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla

dignità delle persone e della loro unione» (Catechismo, 2521).

4

4. La povertà del cuore

«Il desiderio della vera felicità libera l’uomo dallo smodato attaccamento ai beni di questo

mondo, per avere compimento nella visione e nella beatitudine di Dio» (Catechismo, 2548). «La

promessa di vedere Dio supera ogni felicità. Nella Scrittura, vedere equivale a possedere. Chi

vede Dio, ha conseguito tutti i beni che si possano concepire» 8.

I beni materiali sono buoni in quanto mezzi, ma non sono fini. Non possono riempire il cuore

dell’uomo, che è fatto per Dio e non si sazia col benessere materiale.

«Il decimo comandamento proibisce l’avidità e il desiderio di appropriarsi senza misura dei beni

terreni; vieta la cupidigia sregolata, generata dalla smodata brama delle ricchezze e del potere in

esse insito. Proibisce anche il desiderio di commettere un’ingiustizia, con la quale si

danneggerebbe il prossimo nei suoi beni temporali» (Catechismo, 2536).

Il peccato è avversione a Dio e conversione alle creature; l’attaccamento ai beni materiali

alimenta questa conversione e porta alla cecità della mente e all’indurimento del cuore: «Se uno

ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore,

come dimora in lui l’amore di Dio?» (1 Gv 3, 17). La brama disordinata dei beni materiali è

contraria alla vita cristiana: non si può servire Dio e le ricchezze (cfr. Mt 6, 24; Lc 16, 13).

L’eccessiva importanza che oggi si dà al benessere materiale al di sopra di molti altri valori, non

è indice di progresso; rappresenta piuttosto un ridimensionamento e una degradazione dell’uomo

la cui dignità sta nell’essere una creatura spirituale chiamata alla vita eterna come figlio di Dio

(cfr. Lc 12, 19-20).

«Il decimo comandamento esige che si bandisca dal cuore umano l’invidia» (Catechismo, 2538).

L’invidia è un peccato capitale. «Consiste nella tristezza che si prova davanti ai beni altrui»

(Catechismo, 2539). Dall’invidia possono nascere molti altri peccati: l’odio, la maldicenza, la

calunnia, la disobbedienza, ecc.

L’invidia comporta un rifiuto della carità. Per lottare contro di essa dobbiamo vivere la

benevolenza, che ci porta a desiderare il bene agli altri come manifestazione dell’amore che

abbiamo per loro. In questa lotta ci aiuta anche la virtù dell’umiltà, perché non bisogna

dimenticare che l’invidia spesso è causata dall’orgoglio (cfr. Catechismo, 2540).

Pablo Requena

Bibliografia di base

Catechismo della Chiesa Cattolica, 2514-2557.

Letture raccomandate

San Josemaría, Omelia Perché vedranno Dio, in Amici di Dio, 175-189; Omelia Distacco, in

Amici di Dio, 110-126

1 Cfr. Gal 5, 19-21; Rm 1, 29-31; Col 3, 5. San Paolo, dopo aver raccomandato di astenersi dalla

fornicazione, scrive: «che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non

come oggetto di passioni e libidine, come i pagani che non conoscono Dio […], perché Dio non

ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione» (1 Ts 4, 4-7). Sottolinea l’importanza degli

5

affetti, che sono l’origine delle azioni, e fa notare la necessità della loro purificazione in vista

della santità.

2 Si capisce così la differenza fra “sentire” e “consentire”, riferito a una passione o ad un moto

della sensibilità. Solo quando si consente con la volontà c’è peccato (se la materia è

peccaminosa).

3 «Sguazzi nelle tentazioni, ti esponi al pericolo, giochi con la vista e con l’immaginazione,

parli di… scempiaggini. – E poi ti meravigli che ti assalgano dubbi, scrupoli, confusioni,

tristezza e sconforto. - Devi concedermi che sei poco coerente» (San Josemaría, Solco, 132).

4 «Non ti preoccupare, succeda quel che succeda, se non acconsenti. – Perché soltanto la

volontà può aprire la porta del cuore e introdurvi quelle cose esecrabili» (San Josemaría,

Cammino, 140. Cfr. Ibidem, 258).

5 «Il decimo comandamento riguarda l’intenzione del cuore; insieme con il nono riassume tutti i

precetti della Legge» (Catechismo, 2534).

6 «Con la grazia di Dio giunge alla purezza del cuore: mediante la virtù e il dono della castità,

perché la castità permette di amare con un cuore retto e indiviso; mediante la purezza

d’intenzione che consiste nel tenere sempre presente il vero fine dell’uomo: con un occhio

semplice, il battezzato cerca di trovare e di compiere in tutto la volontà di Dio (cfr Rm 12, 2; Col

1, 10); mediante la purezza dello sguardo, esteriore ed interiore; mediante la disciplina dei

sentimenti e dell’immaginazione; mediante il rifiuto di ogni compiacenza nei pensieri impuri,

che inducono ad allontanarsi dalla via dei divini comandamenti: “la vista provoca negli stolti il

desiderio” (Sap 15, 5); mediante la preghiera» (Catechismo, 2520).

7 «Gli occhi! Attraverso di essi entrano nell’anima molte iniquità. – Quante esperienze alla

David!… – Se custodite la vista avrete assicurato la custodia del cuore» (San Josemaría,

Cammino, 183). «Mio Dio!, trovo grazia e bellezza in tutto ciò che vedo: custodirò la vista in

ogni momento, per Amore» (San Josemaría, Forgia, 415).

8 San Gregorio di Nissa, Orationes de beatitudinibus, 6: PG 44, 1265A. Cfr. Catechismo, 2548.

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