Lo Spartaco di Aldo Schiavone
Lug 30th, 2013 | Di cc | Categoria: Spettacoli e Cultura
In estate, sotto l’ombrellone, in tenda o in montagna, i lettori appassionati non tramontano mai. Per chi ama la storia, il mito e le ricostruzioni di pagine antiche che hanno segnato il nostro immaginario, proponiamo un libro di Aldo Schiavone: Spartaco. Le armi e l’uomo. In quest’esile volumetto, edito da Einaudi, Schiavone traccia un racconto biografico, abbastanza romanzato, su Spartaco, costruendo una serie d’ipotesi interpretative circa gli eventi più problematici della rivolta del 73-71 a. C.
Basandosi fondamentalmente su passi di Sallustio, Plutarco, Floro e Appiano, Schiavone prova a congetturare spostamenti, piani strategici e motivazioni di scelte tattiche, sempre delineando il contesto della rivolta: uno sfondo dominato dallo schiavismo romano negli anni settanta del I secolo a. C., nelle campagne e nelle città dell’Italia centro-meridionale ormai romanizzate. Ipotizza che Spartaco, proveniente dalla Tracia, sia nato attorno al 100 a.C. e che ventenne sia entrato in contatto con i romani, appartenendo a una comunità già tributaria dell’impero. Floro tramanda che Spartaco diventò presto un soldato dell’esercito romano, reclutato, secondo Schiavone, negli anni della presenza di Silla in Grecia e Macedonia, fra l’87 e 83 a.C., durante la prima guerra contro Mitridate. All’improvviso disertò: Schiavone crede che la diserzione avvenne quando il proconsole Appio Claudio Pulcro, tra il 77 e 76, intraprese una campagna contro alcune popolazioni tracie, intendendo reprimere anche il popolo dei Maidi (la gente di Spartaco), da tempo in rivolta. Per questo «Spartaco diserta. Probabilmente, si unisce ai rivoltosi […] continua a combattere: questa volta dalla parte del suo popolo. Diventa un ribelle: per i romani, un bandito. In realtà, è un guerrigliero, un partigiano» (p. 19).
Spartaco fu presto catturato, trasferito a Roma e venduto a Lentulo Baziato, tenutario della scuola-prigione di Capua, dove giunse alla metà del 74. Un anno dopo, nella tarda primavera del 73, progettò la fuga dal campo con una settantina di schiavi. Abbandonata la città, si diressero verso sud, affrontarono, vincendoli, i pochi reparti male addestrati provenienti dalla guarnigione di Capua e raggiunsero il Vesuvio, dove vinsero le truppe romane comandate da Glabro. Da Roma si mossero le truppe di Varinio, che, coadiuvato da due legati, Furio e Cossinio, decise di dividere le sue forze ma riportò due sconfitte. Spartaco sarà vinto solo successivamente, dopo più scontri, da Crasso, nella valle del Sele.
Spartaco è ricordato come un ribelle giusto: la sua condotta politico-pedagogica, secondo Schiavone, intendeva educare i suoi uomini a una disciplina di severità e rigore, che migliorasse l’attitudine al combattimento e trasmettesse un’indicazione politica, un radicale livellamento economico e un rifiuto della forza corruttrice della ricchezza. Un proposito che arriva nel cuore dell’impero, in un momento storico drammatico, in una società sempre più orientata verso l’opulenza. Spartaco doveva fare leva sulle condizioni sociali delle plebi italiche e sull’esistenza di sentimenti antiromani nelle comunità italiche, scommettendo che fosse possibile costruire, con l’appoggio delle popolazioni locali, un contropotere rispetto a quello di Roma, qualcosa di simile a un’alleanza italica, in un momento difficile per l’impero. È, invece, da escludere una proposta di abolizione della schiavitù, perché l’idea di una società senza lavoro servile non apparteneva alle culture del Mediterraneo antico e le grandi rivolte tra il II e il I secolo non si prefiggevano questo scopo; intendevano «solo rovesciare situazioni locali e vendicarsi di padroni disumani, non sradicare un sistema in modo globale» (p. 87). Il piano di Spartaco è, però, giudicato da Schiavone realistico e velleitario allo stesso tempo. Realistico, perché puntava sui punti deboli del potere: il difficile rapporto sociale e politico con le comunità italiche; la presenza di masse plebee fuori controllo; la momentanea debolezza militare della repubblica nella penisola, dovuta alle contemporanee guerre ai capi opposti dell’impero; la violenza nella gestione del sistema schiavistico. Era, però, anche velleitario perché Spartaco, nel momento in cui voleva attirare dalla sua parte intere popolazioni e città, sottovalutava il limite rappresentato dall’origine servile della sua rivolta, che finì per sbarrargli molte alleanze. Mancava, soprattutto, una prospettiva sociale e politica da offrire ai ribelli e che riuscisse a «tenere insieme plebi urbane e rurali e masse di schiavi, al di là di una contiguità da disperati, per indicare invece un cammino di riscatto» (p. 90).
La ricostruzione dello Spartaco di Schiavone, dunque, non sfocia nel mito o nella leggenda, ma è la storia che diventa racconto, con i suoi limiti e le sue suggestioni.
Giuseppina Amalia Spampanato