URLA A BASSA VOCE.
Set 28th, 2012 | Di cc | Categoria: Cronaca di NapoliUrla a bassa voce, con le sue voci dal buio, è un libro importante e necessario. Ci costringe ad aprire gli occhi di fronte a una realtà che non ci piace. Ci obbliga a conoscere ciò che non vorremmo sapere, realtà che vorremmo tenere distanti dalla nostra vita e che ? di fatto ? ci riguardano,
Urla a bassa voce è anche un libro di non facile lettura perché documenta e informa anche su che cosa significa ? per il nostro ordinamento ? ?ergastolo ostativo?. Il termine, di per sé duro e respingente, significa che qualsiasi riduzione di pena decisa dalla legge per chi è in carcere, è negata a chi vive la condizione dell?ergastolo. Per chi è condannato all?ergastolo ? detto in altri termini ? non ci sono benefici di legge possibili sulla pena. Vale a dire che l?ergastolo è totale, effettivo e senza termine.
Non è ?una? facile lettura perché in contesti di reati, di delitti, di difesa sociale e di torti subiti?, non è possibile attivare il pensiero semplice. Le ragioni (sacrosante e legittime) di chi dal delitto è stato ferito
Impedire alla giustizia di diventare vendetta è la vera sfida a cui siamo chiamati. Impedire che la giustizia ?chiuda? chi ha sbagliato nel suo errore (e gli neghi le possibilità del cambiamento) è l?altra faccia della stessa medaglia.
Per questi motivi
Nel clima attuale può sembrare incredibile, ma, per la verità, il Parlamento provò egualmente ad abolire l?ergastolo: nell?aprile 1998 il Senato approvò un disegno di legge in tal senso con 107 voti a favore, 51 contrari e otto astenuti, ma la riforma si arenò poi alla Camera. Si trattò di un tentativo controcorrente e di un atto di coraggio non frequente da parte dei partiti politici; eppure erano passati solo pochi anni dalle terribili stragi di mafia di Capaci e di Palermo.
OggiAggiungi un appuntamento per oggi la situazione è decisamente peggiorata da molti punti di vista. Vari e successivi interventi legislativi hanno irrigidito il sistema delle pene; la situazione penitenziaria è costantemente al limite del tracollo, con un sovraffollamento record e con condizioni interne insostenibili, sia per quanto riguarda la vita dei reclusi sia per il lavoro degli operatori e degli agenti. Soprattutto sono cambiati il clima sociale e la cultura generale, assai poco inclini a considerare la necessità di riforme e di aperture.
Anche per queste ragioni il libro risulta opportuno: un piccolo contributo a provare a cambiare una cultura della pena che, come ebbe a dire nell?anno del Giubileo papa Giovanni Paolo II, somiglia troppo spesso alla ritorsione sociale.
Urla a bassa voce costringe a delle domande scomode, che consuetamente si cercano di evitare poiché non lasciano tranquilli e poiché le risposte non sono a portata di mano, comportando approfondimento e un coinvolgimento anche emotivo.
Provo a porne qualcuna.
La prima: se lo scopo prevalente della pena detentiva è la rieducazione come può farlo quella perpetua?
La seconda: questo ?fine pena mai? aggravato (come a dire: anche il peggio può essere peggiorato in una rincorsa senza fine verso l?annichilimento della speranza), questa «pena di morte viva», come la definisce la curatrice del volume, ha fondamento e legittimità costituzionale?
Tra i tanti altri possibili, vi è poi un interrogativo ulteriore, forse il più scomodo di tutti: possiamo rimanere indifferenti e inerti di fronte a questi uomini sepolti nel buio, dopo avere qui letto le loro storie, percepito le loro sofferenze e osservato il loro cambiamento?
Le pagine che seguono possono e debbono aiutare a trovare risposte, ma non servirebbe leggerle se non si è disponibili a esserne interpellati e scossi, se non si è capaci di abbandonare facili giudizi e stereotipi correnti, perché mai come in questo caso puntare il dito equivale a rinunciare preventivamente all?ascolto.
Questo libro curato dalla giornalista Francesca de Carolis può essere letto in tanti modi diversi: come spaccato di vita e di problematiche carcerarie, come trattato critico di criminologia, come rassegna di delitti e di pene, come stimolo all?impegno civile. Per me è, anzitutto, una raccolta di testimonianze che ?gridano? la loro fatica e la loro sofferenza .
Le prime pagine, con le note autobiografiche degli autori, dicono già gran parte di quel che c?è da sapere. Vite bruciate dal carcere e nel carcere. E prima dal e nel delitto. O almeno così si è portati, quasi istintivamente, a ritenere. Perché uno dei tanti meriti di questo libro è di ricordarci che di fronte a un uomo incarcerato, tanto più se condannato all?ergastolo, occorre sempre aprirsi al dubbio, oltre che all?ascolto: «E se fosse innocente?». Non per sfiducia nell?operato dei giudici, ma per la consapevolezza che l?errore è umano. E quando quell?errore può portare a tanta sofferenza non riuscire a riparare all?errore è, obiettivamente, disumano.
Il carcere, e questo libro lo dimostra ancora una volta e con più forza, però può anche essere recupero dell?umano. E con esso, grazie a esso, del rispetto per sé e per l?altro e per le regole che consentono alla relazione tra sé e l?altro di essere improntata alle necessità comuni, dunque alla costruzione e alla manutenzione della comunità.
?Bene comune?, un concetto oggiAggiungi un appuntamento per oggi giustamente diffuso, è anche questo: senso della regola e della sua osservanza da parte di tutti. Tutti, naturalmente, vuol dire anche e forse prima chi le regole è tenuto a definirle (il legislatore e il potere politico) e ad amministrarle (l?ordine giudiziario, le istituzioni in generale e, in questo particolare, quelle preposte all?esecuzione della pena).
Occorre infatti dire ad alta voce ? non lo si fa abbastanza, anzi, spesso non lo si fa per nulla ? che il carcere assume paradossalmente tratti di illegalità. Non è legale il sovraffollamento, non è legale la mancata applicazione del Regolamento penitenziario, varato nel 2000 e rimasto per lo più lettera morta. Non sono legali la mancanza di cure, l?insufficienza dell?assistenza o la lunghezza dei processi. Le Corti europee hanno censurato l?Italia numerose volte per queste e altre croniche mancanze. Eppure, nulla sembra cambiare, nonostante l?impegno degli operatori.
Si tratta di interrogativi le cui risposte, però, non sono scontate. Ma da qui occorre cominciare: dal coraggio civile di porsi e porre domande. Dal non dare per scontato che il carcere e la pena ? e tanto più quelli senza fine e senza speranza ? siano sempre la risposta giusta e necessaria. Dal provare almeno a immaginare alternative, e poi provare a liberarsi dalla necessità del carcere, come invitava a fare un movimento di illuminati riformatori (Mario Tommasini e Franco Rotelli tra i primi) negli anni Ottanta del secolo scorso. E come, in tempi più recenti, ci ha invitato a fare il cardinal
Il carcere, insomma, è un prodotto dell?uomo e in quanto tale ha avuto un inizio ma può dunque anche avere una fine, per lasciare il posto a qualcosa di meno distruttivo, che sappia difendere la collettività ma senza annichilire chi da essa si è chiamato fuori attraverso il delitto. Al quale nella comunità deve però essere concesso di rientrare, avendo compreso i propri errori e avendone pagato le conseguenze; le quali, tuttavia, devono essere tali da lasciare sempre aperta la speranza.
Giudicare insensato il carcere senza fine non è, del resto, asserzione ideologica o radicalismo astratto, ma semplice constatazione. Tenere una persona imprigionata significa, letteralmente, tenerla in cattività. Non c?è positività, non c?è il buono possibile nell?uomo in catene; c?è la sua mortificazione e semmai una spinta a essere peggiore.
Quell?alberello nel cortile della prigione, tagliato per ragioni di sicurezza, cui accenna in queste pagine uno dei condannati all?ergastolo, ci racconta, più di tanti saggi o ricerche, come e perché il carcere non è un rimedio ma un male ulteriore, un danno che si aggiunge al danno, un dolore che non risarcisce altri dolori. Il cardinal Martini, richiamando le Sacre scritture, è stato categorico: «Il cristiano non potrà mai giustificare il carcere, se non come momento di arresto di una grande violenza». Naturalmente, talvolta il carcere appare e diviene necessario. Ma entro limiti precisi. Scrive ancora Martini: «La carcerazione deve essere un intervento funzionale e di emergenza, quale estremo rimedio temporaneo ma necessario per arginare una violenza gratuita e ingiusta» (Sulla giustizia, Mondadori 1999).
Rimedio estremo e temporaneo. Vale a dire che il carcere deve essere considerato l ?extrema ratio?, l?ultima possibilità, non la prima, non la scorciatoia. E che la pena deve essere a termine, non perpetua. Invece, alla fine del 2011 il totale dei reclusi che scontavano l?ergastolo ammontava a 1.528. Oltre mille e cinquecento persone che trovano indicato nel proprio fascicolo l?anno 9999 come fine della propria pena. Una pena infinita non può essere considerata vera giustizia.
Da questa considerazione si può e si deve ripartire per una riflessione equilibrata a livello culturale, sociale e politico che tenga in adeguato conto le parti lese, le vittime dei reati, ma sapendo anche che una riforma della pena perpetua ostativa è necessaria.
Non è materia che riguarda solo i giuristi e i tecnici o i diretti interessati.
Urla a bassa voce ci ricorda che siamo tutti chiamati in causa, nella società e davanti alle nostre coscienze. Come scrive Maria dopo la morte di Aziz, un giovane suicida nel penitenziario di Spoleto: «Ogni uomo che si toglie la vita in carcere lo fa anche per causa mia, per un qualcosa che io non ho fatto, per un?attenzione a una sofferenza che non ho voluto o saputo vedere».
d. Luigi Ciotti