La teoria dell’obbligo di ascolto
Lug 27th, 2012 | Di cc | Categoria: Cronaca NazionaleLì dove un Capo di Stato si ritira e maschera dietro una sua ostentata incorruttibilità, solo di fatto presumibile ma ad onor del vero mai accertabile, è fin troppo evidente che ci si trovi dinanzi ad una anacronistica e desueta circostanza di invocata lesa maestà, così stridente con i principi che ispirano il Paese stesso e la sua Costituzione, da porre più di un lecito interrogativo sulla reale consistenza dell’attuale assetto politico italiano e del suo orientamento.
Se è vero che tutti i cittadini posseggono un potenziale sovversivo, un intento più o meno celato ad indirizzare le proprie azioni verso qualcosa di illecito, seppur spesso in modo inconsapevole, è sancito il diritto ed il dovere di controllo, nel tentativo di scongiurare qualsiasi atto contrario a ciò che altri hanno definito legale. Seppur oggettivamente antidemocratico nel contenuto, tale principio, universalmente condiviso, tramuta la sua natura in strumento di controllo, a tutela degli equilibri sociali e dell’ordine pubblico. E’ evidente come uno Stato di definizione anarchica, sarebbe caotico. Ora, è lecito chiedersi, secondo quale altro principio, tristemente invocato da più parti politiche, coloro i quali sono chiamati a decidere per altri, a prescindere dalle modalità con cui questa investitura avviene, debbano essere esentati per definizione da qualsiasi eventuale e giustificato controllo sul proprio operato. Una sorta di benedizione, un’aurea protettiva che trova origine solo ed esclusivamente grazie all’autoconferimento, ma che non trova nessuna conferma nella volontà popolare, dal momento che garantisce ai controllori quell’anarchia che essi stessi sono chiamati a scongiurare con il proprio ruolo.
Viviamo in un Paese dove la Democrazia viene propinata più come un’illusione, un’orgia di suggestione popolare, ma dove difficilmente trova applicazione, se non in modi e tempi estremamente lontani da quelle che sono le sue origini. E’ oggettivamente vero che in assenza di democrazia, queste parole non avrebbero luogo, che il sottoscritto non avrebbe avuto modo di esprimere il suo proprio personale punto di vista, e che altri non avrebbero avuto modo di sposare tale teoria o apertamente dissentirne, ma è in questo che si nasconde la più grande contraddizione dei tempi moderni.
La democrazia garantisce libertà di parola e di opinione, ma non obbliga nessuno ad ascoltare.
Questo significa alterare la natura del regime politico, tramutando uno Stato democratico in una oligarchia, totalmente autonoma ed avulsa da qualsiasi connessione con l’elettorato.
Per le modalità di elezione, il conferimento di una carica politica, non è più un mandato di rappresentanza, di volontà ed intenti, ma piuttosto l’attribuzione senza criterio e senza controllo, di privilegi ad oltranza. Si tratta di proiettare l’eletto in una dimensione a lui sconosciuta dove, per la natura stessa del suo incarico, non avrà più modo, qualora ne avesse avuto mai intento, di portare la parola del suo popolo, di farsi tramite di una volontà o di una esigenza, ma avrà inevece necessità, per la sua stessa sopravvivenza di uomo politico, di tutelare prima i principi dei suo pari, di sposarne tesi ed interessi per evitare di alterare l’equilibrio del contesto in cui si trova.
Letteralmente, la democrazia, in piena attinenza con la sua etimologia, dovrebbe essere l’espressione del potere popolare. Un concetto, con buona approssimazione, assai vicino a quello del padre di famiglia il quale, con il preciso intento di tutelare il proprio stato di diritto, si adopera per il benessere del proprio nucleo familiare, garantendogli le condizioni economiche ottimali ed un luogo sereno ove svolgere le normali attività quotidiane, facendo tutto quanto in suo potere perchè questo avvenga. In forma di delega, la scelta di un candidato, eletto in rappresentanza di uno o di tanti, trasla oneri al singolo per conto di tanti, ed è suo preciso obbligo tutelare le condizioni di chi lo pone in una condizione di vertice. Il conferimento di smodati ed ingiustificati privilegi, siano essi di natura economica, ma ancora di più se di immunità legale, allontanano concretamente l’eletto dalla realtà da cui trova origine, e lo pongono in una condizione di semidio troppo distante da quelle che sono le prerogative stesse della sua elezione. Una condizione economica che non trova riscontro in quasi nessuna delle classi sociali nazionali, se non in una strettissima minoranza, è priva di qualsiasi logica, nonchè di qualsiasi necessità. Una condizione economica di privilegio ad oltranza, ben oltre i termini del mandato, è ancora più inaccettabile, soprattutto se relazionata alle attuali scadenze previste per l’erogazione delle pensioni, ormai sempre più vicine ad una definitiva abolizione. Concedere la rieleggibilità per ben più di una legislatura poi, pone l’uomo politico, in una condizione di potere e gestione dello stesso assoluta. Il tutto condito dall’incolumità, altro balzello inventato ad arte per consentire una piena autonomia di manovra, al di fuori di qualsiasi controllo.
Sono tutti concetti semplici, che in uno stato realmente democratico dovrebbero trovare applicazione immediata, anzi forse nemmeno sarebbero in discussione. E sono tutti quotidianamente espressi, così come quotidianamente viene espresso il dissenso a questo Governo tecnico, palesemente proteso alla tutela degli interessi di pochi ed a trovare le risorse per farlo nei molti. Ma ascoltano? Tutti quelli che sono lì grazie e soltanto grazie al nostro voto scellerato ascoltano?
La domanda è quindi leggittima. Siamo realmente in uno Stato democratico?
Claudio d’Emmanuele