EDUCABILITA’ UMANA

Ott 16th, 2011 | Di cc | Categoria: Religione

Educabilità umana ha lo stesso senso di perfettibilità umana, di tensione viva ad assimilarsi al Modello, di spinta a diventare quell’io che si è. Non è uno spazio da riempire né una serie di comportamenti o di persuasioni da apprendere, bensì un fascio di energie inesauribili da sviluppare in tutto l’arco del vivere: c’è in noi qualcosa di eterno. E’ il potenziale affidato a ciascuno di noi. Ci distingue l’uno dall’altro. Di lui non conosciamo ne l’intensità né la misura, ma possiamo concretamente esperire l’una dall’altra. Svilupparlo è il compito di tutta la vita, compito che va svolto interamente e non può essere copiato da altri.Dello sviluppo di questo fascio di energie siamo responsabili. Il richiamo alla parabola dei talenti è spontaneo.

Va rammentato che le energie si  apprezzano quando dallo stadio potenziale passano a quello attuale. Finchè non passano all’atto non hanno un volto preciso. Supporle, immaginarle, bramarle è poco o nulla. Necessario anche se rischioso e faticoso, è farle passare all’atto. E per sopportare rischio e fatica bisogna apprezzarle, esserne convinti e appassionati. Non avvertirle mai come un peso.

PRIMA ENERGIA

La prima energia, quella che, pur rimanendo misteriosa, ha un lato constatabile, è identificabile nel fatto che l’uomo ha la parola , anzi che l’uomo è uomo proprio perché ha la parola. E’ giusto prendere atto che con la parola si tocca un tema immenso, ma davvero determinante per comprendere l’educabilità umana- propria e altrui-, in vista della formazione. Cosa fondamentale è non confondere parola e parole , queste non sono il plurale di quella, perché tra l’una e le altre c’è una differenza qualitativa, non una differenza quantitativa.

Parola è l’esprimibilità dell’essere, dell’esserci. Le parole sono un veicolo convenzionale che può essere slegato dalla parola. L’uomo ha la parola (cioè può e deve esprimere l’umano in quella particolarità che è cosa propria di ognuno), e può usare le parole o come strumento oggettivo di comunicazione a tanti livelli, o come veicolo per il pronunciamento della parola.

L’animo religioso ricerca l’origine del fatto che l’uomo ha la parola, la causa di questo salto nei gradi delle cose create. Grandeggiano nella riflessione sull’animo religioso le primissime pagine della Genesi e il Prologo del Vangelo di Giovanni.  Nella Genesi Dio ci ha svelato come è avvenuta la creazione: mediante il suo dire. Nel Prologo ci ha detto del Logos e del suo diventare carne e piantare la sua tenda in mezzo a noi. Qui c’è l’origine della Parola che è nell’uomo, della parola che qualifica il suo essere, che ne esprime la natura relazionale, e che dice in maniera incredibile la sua dipendenza da Dio e il suo rapporto attuale con Lui. L’essere- e l’essere stato primariamente uditore della parola consente all’uomo di diventare facitore della parola. L’essere uditore presuppone e pone il rapporto vivo e attuale dell’uomo con Dio. La capacità di essere facitore pone il rapporto dell’uomo con i fratelli, rappresenta il primo soddisfacimento del bisogno che il soggetto ha degli altri. Bisogno insopprimibile di esprimere il proprio essere, e bisogno di avere qualcuno a cui esprimerlo. Qui si radicano la vita in comune e le forme varie della socialità, e da qui assumono il loro senso.

La parola nel momento in cui è indirizzata all’altro, palesa quella scheggia minima di potere creante che ha serbato in sé: per questo infrange la muraglia cinese dell’isolamento e rende possibile l’incontro. Il dialogo si incardina sulla parola e si serve(soltanto si serve) delle parole, anche le più alte e sofisticate. Il vero dialogo è nel mutuo scambio dell’espressione del proprio essere, della propria originalità, nella dialettica dell’ascoltare e del rivolgere la parola.

Accogliere la parola dell’altro è offrire a lui l’occasione giusta per formularla meglio. Ci vuole un orecchio capace di liberarsi da interferenze e rumori, perché la parola che l’altro esprime non si snaturi, ma sia accolta nella sua vera estrinsecazione. Da qui anche l’occasione giusta perché ognuno percepisca ed esprima sempre più fedelmente la propria. Esprimere la parola è radicalmente risposta, perché la natura della parola è relazionale: essa è fatta per presupporre e porre il rapporto tra i soggetti.  L’aver la parola è la prima energia in quel fascio che costituisce l’educabilità umana.

SECONDA ENERGIA: CAPACI di AMARE

La capacità di amare è indubbiamente un’altra delle energie massime che costituiscono l’educabilità umana. L’amare è un’energia di cui tutti sappiamo (o crediamo di sapere), di cui tutti abbiamo fatto esperienza (o speriamo di averla fatta), che, però, non possiamo padroneggiare né concettualmente né all’atto pratico. Il Cristianesimo ha portato la problematicità dell’amare al punto culmine, ha aperto la strada all’intensificarsi illimitato di tale energia, ha fatto, paradossalmente, dell’amare il precetto per antonomasia, e così ha svelato che nell’uomo c’è una capacità di amare quasi infinita.

Per il Cristianesimo l’amare umano è originariamente un ri-amare. L’ amare è, per il cristiano, ontologicamente una risposta, perché la risalita mediante l’avere la parola giunge al sentirsi amati, a sentirsi il tu di Qualcuno. Qui grandeggia il dinamismo della conoscenza per connaturalità, si è nel mistero del teomorfismo . L’uomo porta in se un mistero di amore, un misterioso sapersi oggetto d’amore, una coscienza che può crescere e intensificarsi durante tutto l’arco del vivere. Siamo nati per- già presagiva l’Antigone di Sofocle- rispondere all’amore .E in forza di ciò, il cristianesimo tende, nell’uomo, la capacità di amare l’altro uomo da un lato fino ai vertici dell’amicizia, dall’altro fino ai vertici dell’amore per i nemici.

Il radicamento vitale nel primo fondamento, se reale e non soltanto pensato o anelato, porta con sé la rimozione di ostacoli precisi. Rammentiamone qualcuno:

·        La chiusa egoistica, anche quella derivabile dalla mancata maturazione affettiva,

·        Qualsiasi atteggiamento interiore o esteriore di dis-prezzo dell’uomo( non dare all’altro per qualsiasi motivo, il prezzo che è suo e che gli spetta);

·        Il fraintendimento dell’aver bisogno dell’altro sulla linea dell’utilizzo;

·        La voglia inumana di far soffrire l’altro;

·        L’autoinganno, cioè il camuffare a se stessi sentimenti impropri quasi fossero amore.

Questi primi tratti elementari lasciano intravedere piccoli sentieri che conducono all’educabilità e alla formazione.

Primaria è la qualità di immotivato che l’amore deve avere, annodata strettamente con la concretezza.

Tra le tante sollecitazioni che si possono rintracciare a questo proposito c’è quella contenuta in una bella pagina di Kierkegaard negli atti dell’Amore .

Una pagina segnata dalla peculiarità dell’educativo incastonato nell’amare. L’enunciato è che amare una persona equivale a intuire acutamente le sue proprietà, volerle amorosamente, e cooperare al loro pieno sviluppo senza lasciare alcun marchio. Le proprietà proprie dell’altro, quel quid che lo segna e lo individualizza e di cui nessuno è privo, sono la sua originalità non misurabile con moduli oggettivi , sono il cuore della sua dignità, non intaccabile da niente. Volere la loro piena attuazione è far sì che l’altro sia qualcuno per qualcuno, nella celebrazione dell’unicità.

La maternità o la paternità possono avviare a percepire l’unicità di quell’essere umano che è il figlio. La mancanza di questa massima esperienza va colmata. Il compito, per colui che ama, è di volere profondamente le proprietà proprie dell’altro, fondamento della sua unicità. Perché quelle proprietà costituiscono la struttura del suo essere, la forza del suo agire, la sua sconfinata possibilità di instaurare rapporti. Vanno volute profondamente anche se non sono identiche o simili a quelle di colui che ama, né rispondenti ai suoi canoni di apprezzamento e di rispetto. Non vanno cancellate, nascoste sotto una proiezione delle proprie, né si possono dichiarare “non trovabili” soltanto perché cercate con un cuore meschino o uno sguardo cieco.

Questo, per altro, è un esercizio buono per imparare ad amare in modo, concreto, per uscire dal bozzolo dell’egoismo-in cui è tanto facile ricascare-,e persino per volere intensamente lo sviluppo delle proprietà proprie. Qui è la fonte della gioia, a patto che si tenga aperta ogni possibilità di sinergia.

La prova più grande di amore è far esperire l’essere amati, ma il senso di essere amati lo si possiede nella misura in cui lo si è esperito. La veridicità, però di tale esperito è nell’atto interiore dell’amare.

Impossibile non riandare alle intuizioni e agli scandagli di Giovanni, Paolo, Agostino, Tommaso e tanti altri.

Forse si dovrebbero maggiormente frequentare le loro pagine per cogliere il cuore dell’educabilità e la grande posta della formazione come vero aiutare l’altro nell’attuazione della sua capacità di amare.

Nell’amare si annida tutto il mistero umano come mistero di relazionalità eterna, perché l’amare come proclama Paolo ai cristiani di Corinto, non cesserà mai.

TERZA ENERGIA: liberi interiormente

La libertà interiore rappresenta per il soggetto un diritto primario, anche rispetto alla stessa libertà esteriore nelle sue tante forme. Ma è un diritto che ognuno deve assicurare da sé a se stesso.  Si può estendere ad altri i benefici di una libertà esteriore ottenuta, ma quanto alla libertà interiore  può esserci soltanto un aiuto misurato ; l’effetto è tutto e solo del soggetto che se ne impossessa.

Per la libertà interiore, come per le precedenti grandi realtà dell’umano, è impossibile parlare di definizioni: può solo essere accennato qualche tratto, qualche aspetto che la faccia amare e, e di conseguenza, volere, nonostante il suo alto prezzo. Si può partire dal processo di emancipazione. Il soggetto può essere emancipato da ogni schiavitù interiore, e mutare così la sua condizione interna. Se le schiavitù esteriori sono evidenti e facilmente disapprovate, le schiavitù interiori, invece, sono ingannevoli, sfuggenti, facilmente ammantate di tratti simili a quelli della libertà. Alcune schiavitù interiori pesano, opprimono, ma molte di loro sembrano dare sicurezza o conferire tono al soggetto.

La rimozione delle schiavitù esterne non soltanto non facilita direttamente la rimozione di quelle interiori, ma, per assurdo, potrebbe rafforzarle o crearne di nuove. Ed è proprio e soltanto la rimozione delle schiavitù interiori che rende il soggetto non condizionabile: infatti non ha padrone da temere, né ricatti o coercizioni inchiodanti, in una parola, tale rimozione lo rende libero.

Nella dizione classica, quella formulata da Aristotele nel libro primo della Metafisica, è detto libero colui che è causa di se stesso , chi prende da se stesso il motivo, la forza, la direzione per il proprio agire. Tra i tanti pensatori che hanno assunto ed enfatizzato questo sintagma, è bello ricordare Tommaso. Egli lo utilizzerà anche commentando Giovanni 15,15:il passo in cui Gesù dice ai suoi di averli chiamati amici e non servi: li ha infatti considerati liberi. E Tommaso annota: cioè causa sui . Colui che attinge la forza che causa il suo agire interiore da se stesso, questi è libero, perché ancora una volta, attinge direttamente da quel punto ontologico che segna la sua dipendenza liberante da Dio.

C’è anche una suggestione forte di Dostoevskij. Per le infinite capacità del suo genio, e per le incredibili esperienze del suo vivere,Dostoevskij intravede e descrive l’uomo come come un essere capace di infinito bene e infinito male. Questo sconfinato potenziale può indurre nell’uomo la paura della libertà assegnatagli da Dio, e la voglia di consegnarla, al fine di non doverla più gestire da sé e sopportare una gravosa solitudine e la responsabilità. Talune istituzioni sono pronte ad accoglierla, a sottrarla all’uomo, sì che lui senta reso sicuro, anche se resta inesorabilmente mutilato. E’ questa un’intuizione inquietante che costringe a rintracciare costantemente la linea di demarcazione tra la fuga e il dono, tra il disimpegno e l’impegno.

La libertà interiore è l’avvio alla estirpazione della capacità di infinito male. Un infinito male alla portata di tutti. Basti pensare alla possibilità di far soffrire gli altri. Di questo male infinito possiamo essere colpevoli  tutti, senza eccezione. E’ un male di cui è difficile liberarsi, perché infinite sono le sofferenze che si possono infliggere, anche senza che questo appaia minimamente. La tentazione di far soffrire gli altri è la più pesante tentazione di superbia e di orgoglio, perché gestire la sofferenza altrui è assurdo impeto di onnipotenza. Soprattutto la sofferenza morale può essere inflitta con facilità incredibile e per motivi pseudo giusti.

L’individuazione e la denuncia di ogni schiavitù interiore, la rimozione continua di esse e della radice cattiva consentono l’atto fondamentale della libertà interiore: la decisione di diventare quell’io che siamo (chiamato dal nulla all’esserci per un atto di amore e con un’interpellanza diretta), la scelta della qualità di questo medesimo io( che può avere come Modello e Misura soltanto DIO), e, in base a questo, la motivazione(la forza che muove)per ogni altra scelta, grande o piccola.

Per volere la libertà interiore, volerla per sé come il beneficio grande, volerla con i suoi rischi, le sue solitudini , le sue pretese, bisogna esserne affascinati, esserne innamorati, aver perso la testa per lei. Ma perché questo avvenga la si deve intravedere nella sua bellezza concreta. Quando c’è la libertà interiore trapela da tutto l’essere: dal modo di parlare, di agire, di scegliere, di desiderare, di comportarsi con chi sta in alto e con chi sta in basso. La totalità dell’essere e dell’agire rivela la presenza della libertà interiore. Soprattutto si avverte che è questa a dare al soggetto il senso della tenuta nella massima diversità degli accadimenti, consente di affrontare nel giusto modo la sfortuna, ma soprattutto la fortuna, la povertà, ma soprattutto la ricchezza, l’insuccesso, ma soprattutto il successo, di temere ciò che va temuto e non temere ciò che non va temuto.

Suor Alfonsina Pepe

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