Una vita a tempo

Mag 27th, 2011 | Di cc | Categoria: Salute

Nascere e crescere con centocinquanta euro al mese 

Centocinquanta euro per non abortire. Questa la soluzione adottata da alcuni comuni e regioni italiane per trasformare il dramma di una donna (per l’esattezza, sei su dieci), che decide di interrompere la gravidanza per ragioni economiche,  in uno slogan di propaganda politica.

Allo scopo di tutelare la maternità, alcuni enti territoriali hanno infatti avviato dei progetti pilota, che prevedono lo stanziamento di sussidi e supporto psicologico alle donne meno abbienti, fornendo loro la disponibilità di consultori e strutture sanitarie.

Come riporta “Il Resto Del Carlino” dell’8 marzo scorso, ne è un esempio la città di Correggio, roccaforte del centrosinistra ubicata in provincia di Reggio Emilia, che è diventata “il primo Comune in Italia a promuovere il sostegno alla Maternità”.

Fieri del progetto (e della pubblicità che si sono garantiti), “l’assessora” ventisettenne ai servizi sociali e vari politicanti di turno hanno deciso di destinare alle donne più bisognose un sussidio mensile di 150 euro, fino ad un massimo di 18 mesi, perché “soltanto così la donna è davvero libera di scegliere”.  

Peccato che nessuno, nell’elogiare tale gesto caritatevole, si sia interrogato sulla efficacia di tali progetti e sulle reali possibilità  di sostenere dignitosamente il nascituro al termine dell’erogazione del fondo. 

Il nostro paese non è certo immune da simili stravaganze. 

Nel giugno nel 2010, già la Lombardia aveva avviato un progetto analogo, stanziando cinque milioni, da suddividere in quote mensili da 250 euro ciascuna fino a 18 mesi. Ad oggi,  il progetto Nasko ha dato un valido contributo ad oltre 900 donne (contro le 5 supportate dalla cittadina emiliana), ma ha tralasciato proprio quelle più emarginate ovvero le irregolari o le immigrate in attesa di un permesso di soggiorno, perché uno dei requisiti richiesti è la residenza in regione.

Permangono pertanto dei dubbi in merito ai criteri con cui sono designate le beneficiarie dei sussidi. Se tutte le donne, che intendono rivolgersi ad un consultorio con l’ intenzione di abortire per cause economiche, ne avessero realmente accesso, le risorse si esaurirebbero nel giro di poche settimane. 

Dal punto di vista morale, è invece vergognoso constatare che sussistono ancora realtà in cui una vita umana vale 150 euro al mese, ovvero quanto una cena al ristorante con gli amici o un pacchetto di sigarette al giorno. Questo importo, che può essere impiegato dalla madre per far fronte a delle spese personali o del nascituro, è davvero irrisorio, perché a stento potrebbe essere utilizzato per acquistare vitamine, vestiti premaman, latte artificiale, pannolini e prodotti per l’infanzia. Nel caso di complicazioni della gravidanza o di malattie del bambino, alla donna non resterebbe altro che questuare maggiore misericordia alle istituzioni di turno.

Nessuno, inoltre, sembra essersi chiesto come faranno tali donne (generalmente sole) a mantenere se stesse ed il nascituro alla scadenza dei sussidi, quando dovranno affrontare problemi economici maggiori, correlati alla necessità di trovare un impiego da conciliare con la vita familiare ed aggravati dal costo dell’affitto e del vivere quotidiano.  Chissà se riceveranno ancora una volta aiuto da quei volontari che hanno convinto loro ad accettare 150 euro al mese, come se quei soldi fossero un sussidio a vita o la bella facciata che può nascondere scelte ancora più dolorose.

Una gestione più oculata avrebbe invece portato a diverse risoluzioni del problema.

Con i fondi, che suddivisi in una miriade di quote non avvantaggiano nessuno, si sarebbero realizzati asili nido pubblici, capaci di ospitare gratuitamente i figli delle donne meno abbienti, in cambio di una loro collaborazione saltuaria, così da ammortizzare le spese di gestione della struttura. Alcune di loro avrebbero potuto trovare un impiego proprio in tali strutture, per sostenersi ed allevare dignitosamente i propri  bambini.

Tali scelte avrebbero avvantaggiato l’intera comunità,  perché la penuria di asili nido pubblici e di un buon livello è tale da indurre numerose donne a rinunciare al lavoro o alla maternità, a discapito della crescita socio-economica dell’intera nazione. Basti pensare che i paesi più sottosviluppati sono basati su società patriarcali, nelle quali le donne sono completamente escluse dal mondo del lavoro.

Purtroppo, almeno in quei paesi, la trasformazione dei contratti di genere, ossia il passaggio da una forma di patriarcato radicato in secoli di storia ad un ragionato egualitarismo, richiede tempi troppo lunghi e non sembra ancora attuabile. Da noi, invece, la politica avrebbe tutti gli strumenti per promuovere politiche sociali, volte a garantire l’equità tra i sessi e una partecipazione fattiva delle donne alla vita economica del paese. Ma non sempre le idee si concretizzano in azioni politiche efficaci. E probabilmente , anche la moderna Italia, preferisce non vedere. 

 

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